C'è una dote congenita in pochi di noi che ha la missione di far felici tanti di noi. Questa dote è preziosa per tutti gli abitanti della terra, sia per quelli che se ne rendono conto, sia per quelli che non se ne rendono conto. La felicità paradossale per una giornata piovosa e per un rudere espressionista, per una tonalità di grigio rispetto a un colore, un sorriso spontaneo. La dote del saper raccontare una favola. E Tim Burton lo sa fare bene, anzi bene bene. Tanti provano a imitare la sua poetica e la sua naturale predisposizione al racconto (vedi l'ultimo Silberling, "Lemony Snicket's"), ma nessuno riesce minimamente ad avvicinarvisi.
E' l'epifania del cinema, la sua valenza più forte, quella che rende vano il confronto visibile ma che accosta l'invisibile, quello dei sensi e della plasticità emotiva; quella più vera che anche nel confronto personale viene relegata alle sensazioni spontanee dell'apparato circolatorio, che ha nel cuore il motore pulsante, fondamentale, predominante. La tavoletta di cioccolato che sintetizza la felicità del bambino (del bambino fisico, ma anche di quello mentale) diviene qui lo strumento che sintetizza il cinema e quindi la vita, quello che ha la forza, nella sua semplicità, di cambiare il senso dell'esistenza, divenendo monolite nello spazio, icona magica nella sua realtà. Il film come appartenenza, il cinema che si lascia interpretare e appartenere soggettivamente, si lascia modellare fisicamente tramite lo schermo che diviene intralcio apparente tra il punto di vista e l'immagine, tra lo spettatore attivo e la rappresentazione passiva.
Già nel preambolo dei titoli di testa, Burton preannuncia una visione onirica, ma allo stesso tempo reale per mezzo della spirale di cioccolato e la musica bermanniana di Elfman che ci riporta direttamente all'Hitchcock della "Donna che visse due volte". Ma all'inverso, in retromarcia: qui è la realtà che si realizza per mezzo del sogno. E poi si esce dalla sala: c'è chi torna a scuola, chi a lavorare e chi a raccontare una favola ai nipotini vicino al camino, sopra una sedia a dondolo di vimini, con la coperta sulle gambe e i lucidi capelli grigi legati sulla nuca.
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A world of impure imagination
di Emanuele Di Nicola
Tim Burton lo sfrontato: dopo il film chiave "Big Fish", e prima del ritorno all'animazione di "Corpse Bride" (di cui già si gode un gustosissimo trailer), particolarmente temeraria è stavolta l'impresa del californiano. "Willy Wonka And The Chocolate Factory" (da quel geniaccio di Roal Dahl) è una fiaba amatissima dagli americani, misconosciuta da noi, ma radicata laggiù nell'immaginario collettivo con la prepotenza della sola "Mary Poppins": offrire questo remake, è chiaro, può essere boccone dolceamaro, facendo leva sul bacino popolare - per raccogliere il discorso sullo storytelling che Burton coltiva da sempre - ma contemporaneamente impigliandosi in esso. Un nodo, questo, che accompagna irrimediabilmente la pellicola e non sarà mai sciolto del tutto.
Dopo i mirabolanti titoli di testa (una vera burtonata, dove il cast annega nella cioccolata) Charlie si adagia su una scelta piuttosto comoda: ripercorrere fedelmente le tracce dell'amabile originale (regia di Mel Stuart, 1971) differendo da esso in alcuni snodi specifici (per i maniaci del confronto, tre gli autentici innesti: i flashback di "Willy Wonka", l'esilarante sequenza dei criceti, l'epilogo), ma piuttosto riverente al prototipo.
Per il resto, la storia del piccolo Charlie alle prese con il golden ticket è la più classica delle favole: manicheista, timida e istruttiva, pazzerellona ma con un finale edificante. Su questa tela Burton spalma le proprie lampanti ossessioni, tra cui la celebre deformità come suo marchio di fabbrica (ogni bambino è freak: tutti tarati da solari difetti, dall'obesità alla boria, passando per la miseria "altra" di Charlie - d'altronde anche Wonka fu mostro, come dichiara la sua memoria) declinandole stavolta in versione bonaria: al solito l'impulso circense è straripante (i balletti degli Ompa Loompas), tutto è fatato e meraviglioso come attraverso lo specchio (la fabbrica, ennesimo mondo a parte), il gotico ammicca alla sala (richiamando Halloween), ma tutto s'inchina alla morale della favola.
Da qui un nucleo centrale meccanico e tremolante, in cui i bambocci finiscono puntualmente preda dei loro vizi al mero obiettivo di agevolare la continuity; se Burton continua a pescare a piene mani nel folklore americano - anche cinematografico, con esilarante assenza di pudore: vedi la parodia di "Psycho" e "2001", con una barretta di cioccolato al posto del monolito, tra farsa e impertinenza - stavolta appare legato a un progetto obbligatorio, dove i doveri del rifacimento travolgono l'autore in sé stesso. Malgrado questo, il regista resta lontano dall'opaca saltimbancheria: è un menestrello che coccola il suo plot, lo riempie di piste fuorvianti (la spy-story, il confronto familiare), gioca e si diverte con pubblico e personaggi.
Inferiore all'originale, Charlie è un Burton in vacanza, spassoso certo, ma rigorosamente a mezzo servizio. Cade sulla musa Deep la scelta naturale del regista, non priva di autoironia; ma le molteplici sfumature del suo personaggio, la spiazzante logorrea, i tranelli e i giochi di parole gettano sinistri presagi sul nostro doppiaggio.
(In collaborazione con Gli Spietati)
cast:
Johnny Depp, David Kelly, Helena Bonham Carter, Noah Taylor, Christopher Lee, Freddie Highmore
regia:
Tim Burton
titolo originale:
Charlie and the Chocolate Factory
distribuzione:
Warner Bros
durata:
106'
produzione:
Bruce Berman, Graham Burke, Liccy Dahl
sceneggiatura:
John August
fotografia:
Philippe Rousselot