Le strade erano tutte loro. Centinaia di ragazzini armati di bombolette spray, stencil colossali e spazzoloni sui muri di città desolate e mitologiche. La Street Art ci ha cambiato la vita, nel bene o nell'ulcera, ma soprattutto ha ricalibrato i termini della dialettica artistica su un nuovo livello, e l'ha riportata nell'arena che gli appartiene naturalmente: il quotidiano. Senza contare che loro, la parola "dialettica", la sputerebbero per terra. A questo punto, tracciarne una vera e propria storia significherebbe implicitamente istituzionalizzarla, disegnarle attorno dei confini che non desidera e non servono.
Esiste un solo modo per
raccontarla: prenderla in giro.
"Exit Through The Gift Shop" è tante cose. È un documentario, una forte testimonianza in prima persona di quello che è stata la Street Art dopo la fine degli anni ‘90: ci sfilano davanti Shepard Fairey, il demiurgo di "Obey" e della iconografia obamiana, Ron English, Invader, Monsieur André. È anche la storia di chi c'è dietro a questa testimonianza in prima persona, ovvero Thierry Guetta, un anonimo immigrato francese negli States talmente ossessionato dalla propria telecamera da avere filmato compulsivamente ogni istante della propria vita, che, ironicamente, si è intrecciata con quella dei suddetti artisti. È, soprattutto, la più compiuta riflessione di Banksy, probabilmente lo street artist più noto e geniale al mondo, sull'arte e sul continuo paradosso che la muove.
Thierry Guetta è il fulcro del film, il protagonista di un vero e proprio viaggio dell'eroe che dalle grottesche miserie della quotidianità filmata allo sfinimento lo condurrà a diventare spalla indispensabile dei suoi compagni-eroi artisti, per poi trasformarlo finalmente, con un coup de théâtre di cui Banksy è corresponsabile, in autore (meglio, firmatario) di insensate accozzaglie osannate come opere d'arte da un pubblico mondanissimo e francamente incompetente. Guetta
diventa Mr. Brainwash, perchè
l'arte, come ha la
presunzione di affermare, è
sempre stata lavaggio del cervello. Un lavaggio del cervello che celebra in un'improvvisata e monumentale esposizione d'esordio a Los Angeles, un disastro assicurato che finisce per portargli migliaia di dollari nelle tasche. Questa eroica ascesa sembra una montatura, un mockumentary genialmente congeniato dall'artista inglese. Ma non è così: non c'è niente di fittizio. È tutto catastroficamente reale.
Nel cappuccio nero di Banksy, nella sua voce ironicamente costernata, c'è la consapevolezza che le regole del gioco stanno cambiando ancora. Lo spazio artistico convenzionalmente riconosciuto, "la galleria", "il museo", si stanno riprendendo tutto dalla strada, lo stanno prezzando e mettendo sotto gli occhi del compratore. Quello che fino a poco tempo fa era controcultura torna in seno al mainstream conformista, com'è fisiologico che sia: la crociata ai limiti della legalità di Bansky e soci, il loro ri-impossessarsi degli spazi pubblici per renderli enormi gallerie a cielo aperto, la loro vis corrosiva e testarda viene banalizzata a una coloratissima arlecchinata, riportata con il gunzaglio a modalità che la privano totalmente di senso.
Guetta/Brainwash forse è un genio, più probabilmente un irresponsabile: nella sua totale mancanza di consapevolezza e intenzionalità ha solo acquisito il gusto di giustapporre e buttare in pasto, giustapporre e buttare in pasto. Come ben sintetizza Banksy: "Guetta non ha seguito le regole. Ma, di nuovo, di regole non ce ne dovrebbero essere, giusto?". Novanta, spassossissimi minuti per cercare la risposta, o per perdere ulteriormente l'orientamento.
28/04/2012