Sono molteplici i criteri per cui un film viene proposto e selezionato a un festival, anche a un festival del cinema popolare come quello di Udine. Ma un criterio sicuramente valido per i film sudcoreani, quanto meno quest’anno, pare essere il loro successo commerciale, considerando che se si controlla la lista dei maggiori incassi cinematografici dell’anno in Corea del Sud tutti i film coreani presenti in classifica fanno parte del concorso del ventiseiesimo Far East Film Festival. Fra questi spicca in particolar modo "Exhuma", terzo lungometraggio dello specialista dell’horror Jang Jae-hyun e maggiore incasso del 2024 sudcoreano con l’incredibile cifra di 85 milioni di dollari solo nel mercato domestico (più una dozzina in quello internazionale). In effetti avevamo iniziato la copertura di questo FEFF discutendo del maggior incasso cinematografico cinese dell’anno, l’imperfetta dramedy sulla boxe "YOLO", e del fatto che i suoi principali punti di interesse andassero cercati fra le pieghe di un film piuttosto superficiale. E ora è giunto il momento di concludere questa rassegna dei film presentati a Udine (o almeno, quella del sottoscritto) con una pellicola di simile successo commerciale ma i cui meriti artistici, per quanto a loro volta sepolti sotto la superficie, vanno ben oltre la curat(issim)a confezione del film di Jang.
Ciò che colpisce in primo luogo durante la visione di "Exhuma" è difatti la cura estetica, a partire dalla fotografia satura, quasi patinata all’inizio e poi via via più cupa (fig. 1), fino alla cura per le scenografie e, ancora più, per le coreografie, coerentemente con quanto ci si aspetta ormai da un film sudcoreano ad alto budget ma che, all’interno del genere horror, è ancora tutt’altro che scontata. C’è però il rischio che la bella confezione del terzo film di Jang Jae-hyun sembri tutto ciò che la pellicola ha da offrire, insieme alle interpretazioni del quartetto di star al centro del racconto, e spinga a interpretare "Exhuma" come nulla più un laccato e ben assemblato prodotto di genere come l’industria culturale sudcoreana ne sforna ormai a bizzeffe. In un’edizione del Far East Film Festival in cui la (nutritissima, ben 11 film) selezione sudcoreana si è raramente distinta per offrire qualcosa di più di un intrattenente spettacolo il sospetto poi diviene ancora più forte. Ma basta guardare le cose da una prospettiva leggermente diversa, come d’altronde avviene, e viene affermato, più volte nel corso della pellicola, per poter cogliere il film di Jang in tutto il suo valore.
Fig. 1: "Exhuma" come discesa dalla modernità, internazionalità e luminosità
al misticismo, folklore e oscurità della storia coreana
"Exhuma" inizia, nonostante il suo funereo e ipogeo titolo, fra gli assolati cieli della California, mentre i due protagonisti più giovani, la sciamana moderna Hwa-rim (la lanciatissima Kim Go-eun) e il suo assistente Bong-gil (la star dei deurama Lee Do-hyun), si preparano ad atterrare a Los Angeles, dove i loro servigi sono stati richiesti dal capo di una ricchissima famiglia coreano-americana. Fin da subito le cose iniziano a non essere come sembrano: Hwa-rim viene presa per giapponese dell’assistente di volo, complice anche la sua fluency in quella lingua, mentre il capofamiglia del clan di origine coreana è in realtà il figlio del patriarca e sta, insieme al resto della famiglia, celando qualcosa ai protagonisti, pur richiedendo le loro competenze per sbarazzarsi di una sorta di malattia/maledizione che pare perseguitare i primogeniti della famiglia, lui e il figlio neonato compresi. Il repentino ritorno in Corea del Sud permette di introdurre gli altri due protagonisti, il maestro di feng shui e geomante Kim Sang-deok del leggendario Choi Min-sik e il becchino dalle vaste connessioni Yeong-geun del versatile Yoo Hae-jin, e permette alla pellicola di iniziare a scavare, sia letteralmente sia figurativamente, nella storia e nella cultura coreana (fig. 1).
Un altro film horror coreano che viene quasi immediatamente in mente quando si guarda "Exhuma" è il misterioso e affascinante "Goksung" di Na Hong-jin, pellicola che ha generato un piccolo culto attorno a sé negli ultimi anni grazie alla sua rappresentazione sfaccettata del folklore sudcoreano e alla narrazione ambigua. Il film di Na, divenuto ormai una sorta di pietra di paragone per ogni pellicola coreana del genere, ha in effetti vari punti di contatto con l’opera di Jang, a partire dalla preminenza dello sciamanesimo coreano nella narrazione, efficacemente rappresentato in ambedue i casi in una suggestiva sequenza rituale, fino all’ambientazione principalmente rurale, tesa alla rappresentazione di una Corea distante dall’immaginario urbano e patinato contemporaneo, ben più vicina alle proprie radici magiche, passando per la più evidente durata fluviale. "Exhuma" e "Goksung" hanno però anche notevoli differenze, in primis legate alle sensibilità dei due registi e al loro approccio al genere, rispettoso dei punti fissi dell’horror nonostante numerosi accorgimenti innovativi l’uno quanto apertamente decostruttivo l’altro, essendo Na Hong-jin più interessato a congegnare un mistero irrisolvibile e, alla fine, pure indefinibile, grazie a un uso del montaggio che disarticola il racconto e alla moltiplicazione di spunti narrativi, i quali si espandono come l’inchiostro su una tela, occultando la discernibilità dell’opera (fig. 2).
Fig. 2: la logica "orizzontale" di "Goksung" vs. la logica "verticale" di "Exhuma"
Jang Jae-hyun opta invece per un approccio differente alla narrazione, imitando i suoi protagonisti e iniziando così uno scavo nel folklore e nella storia della Corea che avanza verticalmente, che sprofonda, raggiungendo di volta in volta nuovi strati, e quindi nuovi temi e nuovi sottogeneri, fino a giungere a sua volta a un delirio mistico di difficile leggibilità, dopo che a voglia di scavare ci si è allontanati troppo dalla luce e dal cielo (fig. 2). Non è un caso che il film, che appunto inizia con panorami assolati e una fotografia dai colori caldi, finisca per svolgersi principalmente in ambientazioni notturne, mentre la luce pare avere abbandonato anche nelle poche sequenze diurne le inquadrature statiche in cui si muovono i protagonisti. La calante leggibilità narrativa, che passa dal rigore pseudoscientifico del feng shui degli inizi al confuso scontro finale dentro la gigantesca fossa, viene resa anche a livello visivo, mentre i protagonisti si immergono sempre di più nei lati oscuri della storia della Corea (fig. 1), partendo dalla divisione in due del paese (la tomba da riesumare per cui vengono reclutati si trova su un monte proprio davanti al confine) fino al secolare colonialismo giapponese, di cui non stupisce che fu proprio lo sciamanesimo tradizionale una delle principali vittime.
La rappresentazione meticolosa dei rituali eseguiti dalla mudang (sciamana) con la collaborazione dei suoi variegati assistenti assume a questo punto non solo una finalità spettacolare, evidente nella notevole sequenza del rituale (gut) dell’esumazione, ma anche quella di omaggio alle tradizioni della terra coreana in una pellicola che fa progressivamente della colonizzazione giapponese e della frammentaria identità coreana che vi è gioco forza legata il proprio nucleo tematico. Il fatto che Hwa-rim abbia studiato e praticato lo sciamanesimo anche in Giappone, dove ha appreso la lingua, diviene allora non solo un escamotage per permettere alla donna di interagire col misterioso spirito nipponico con cui i quattro protagonisti si confrontano nella seconda metà della pellicola ma anche un indizio dell’identità ambigua e molteplice della sciamana, e di riflesso della cultura coreana di cui sarebbe massima esponente. Per quanto la sottotrama finale del "palo di ferro", rappresentazione visiva della sottomissione della Corea al Giappone, sia in fin dei conti confusa e possa finire per spossare chi guarda, essa diviene perfetta immagine delle molteplici evoluzioni che "Exhuma" ha attraversato nei suoi 134 minuti, passando da una canonica ghost story con elementi mystery (fortunatamente quasi senza jump scare) a un delirio mistico che si barcamena fra surreale, fantastico e action.
Fig. 3: la colonizzazione dell’immaginario tradizionale coreano
come immagine dell’imperialismo giapponese in "Exhuma"
In ciò la pellicola si distanzia dalle pellicole precedenti di Jang, "The Priests" e "Svaha: The Sixth Finger", tra l’altro ponenti a loro volta una religione al loro centro, risepttivamente il cristianesimo e il buddhismo, in cui la componente sovrannaturale era sempre centellinata all’interno di rappresentazioni realistiche, quanto meno per gli standard del genere. La confusione che probabilmente assale gli spettatori nell’indefinibile finale si trova difatti a rispecchiare quella dei protagonisti, pur esperti di sovrannaturale, intenti a confrontarsi con qualcosa di mai visto prima, uno spirito giapponese che nella forma di un oni vestito da samurai incarna il militarismo e la presunta superiorità razziale del colonizzatore giapponese, assumendo così un aspetto coerente con quello dei primi invasori nipponici della Corea, nel lontano 1592. Il colonialismo giapponese adotta difatti forme cangianti nel film, come lo spirito che è capace di mutare il proprio aspetto, diventando addirittura un onibi, un letterale "sol levante" che si innalza sopra i protagonisti per mostrare la propria superiorità. Questa stessa mutevolezza viene per l’appunto celebrata dal patriarca della ricca famiglia mentre è posseduto dallo spirito del nonno, collaborazionista che si arricchì moltissimo durante il periodo dell’imperialismo nipponico, divenendo poi uno strumento dei colonizzatori anche dopo la morte, con la sua sepoltura inadeguata e strumentale alla causa coloniale che ha provocato la persecuzione dei suoi discendenti (fig. 3).
E così, all’interno dell’abissale sepoltura del samurai deificato, non tutti ma molti nodi vengono al pettine e la storia della Corea si dipana come il racconto della sottomissione all’ingombrante vicino giapponese, mentre l’elegante pellicola dalla fotografia patinata e dalle coreografie curatissime si è trasformata in una stratificata e sfuggente battaglia di simboli in mezzo al fango e al sangue di una tomba. Con il montaggio alternato che si fa sempre più rapido e confuso la simmetria e l’equilibrio esibiti all’inizio di "Exhuma", prima che l’esumazione avesse effettivamente inizio, si dissolvono quindi in una sequela di dettagli che non può essere ricomposta, non senza lasciare ferite, sui protagonisti come sul racconto. E allora non stupisce che nel finale Hwa-rim e sodali intravedano per un attimo l’ombra del samurai oni che ancora incombe su di loro: all’interno di una pellicola iniziata fra cieli stranieri inondati di luce, mentre l’identità coreana della protagonista veniva messa in dubbio, e terminata in una fossa oscura e putrida dove distruggere l'incarnazione dell’imperialismo giapponese non deve sorprendere che l’ombra del colonialismo non se ne vada mai, continuando a perseguitare i protagonisti anche dopo la fine della loro missione. Ci si può illudere che dopo un trauma così grande si possa tornare alla normalità (in un periodo di riavvicinamento fra Corea del Sud e Giappone) ma, come cantavano i Mountain Goats, non si è mai abbastanza liberi dalla proprie tragedie (anche storiche) e "when you see him, you’ll know".
cast:
Choi Min-sik, Kim Go-eun, Yoo Hai-jin, Lee Do-hyun, Kim Jae-cheol
regia:
Jang Jae-hyun
titolo originale:
Pamyo
distribuzione:
Showbox
durata:
134'
produzione:
Showbox, Pinetown Productions, MCMC
sceneggiatura:
Jang Jae-hyun
fotografia:
Lee Mo-gae
scenografie:
Seo Seong-gyeong
montaggio:
Jeong Byeong-jin
musiche:
Kim Tae-seong