Un nuovo modo di guardare le cose. Una nuova prospettiva, un nuovo punto di vista. Una vicenda filtrata dal proprio modo di intendere la realtà e, quindi, il cinema. "Eva" di Benoît Jacquot è, innanzitutto, una nuova trasposizione cinematografica dell'omonimo romanzo di James Hadley Chase, la seconda dopo quella (magnifica) di Joseph Losey. Ed è, dunque, la messinscena critica, aggiornata e alterata, di quel libro: è la versione della storia secondo Jacquot. Bertrand (Gaspard Ulliel) è un giovane scrittore che ha raggiunto il successo attraverso una commedia rubata; Eva (Isabelle Huppert, nel ruolo che fu della compianta Jeanne Moreau) una misteriosa prostituta d'alto bordo. La torbida relazione che si instaurerà tra i due protagonisti finirà con il condurre Bertrand, sempre più affascinato da questa figura femminile, in una spirale di sangue, bugie e perversioni.
In principio fu il verbo, dicevamo, proveniente direttamente dalle pagine di Chase; e poi la carne, prima della pellicola di Losey e ora del digitale di Jacquot. C'è una scena, nell'ultima fatica del regista francese, che riassume perfettamente la qualità di questo lungometraggio. Bertrand, dopo il successo della
pièce sottratta a uno scrittore morente, deve cercare di dare continuità alla sua fama scrivendo una nuova opera teatrale. Nel momento in cui farà leggere alla fidanzata un pezzo della sua nuova creatura, ecco che ella risponderà con un sincero e diretto: "è piatta". Chissà che Jacquot non avesse già previsto tutto, perché il suo "Eva" è proprio così: piatto, anzi piattissimo, in particolare se confrontato con il precedente film di Losey. Una superficie levigata, perfettamente conforme ai dettami del cinema francese da festival, ma dalla narrazione svogliata, frettolosa e persino ridicola. Soprattutto, però, incapace di appassionare, emozionare e generare un minimo di
suspense.
L'"Eva" del 2018 è un classico
huppert-movie dove la Huppert non fa altro che interpretare il solito personaggio da Huppert: perverso, ambiguo, misterioso e cinico. Un
huppert-movie che cita - ma sarebbe meglio dire ruba da - "
Elle" (identica fotografia, medesima costruzione da
thriller) e "
Personal Shopper" (stesse dissolvenze in nero, uguale ripresa del protagonista che chatta con il suo cellulare all'interno di un treno). E che ha pure più di un punto in comune con l'ultimo Polanski di "
D'après une histoire vraie". Insomma: sembra quasi che Jacquot lo faccia apposta a cercare i paragoni, a cercare di essere un
b-movie di un film d'autore. "Eva" è la versione
kitsch e involontariamente comica di un film - anzi di un cinema - che abbiamo già visto, assorbito, rivisto e riassorbito. È un'opera che tenta di rifare ma finisce solo con il disfare i successi di altri; che riprende
tòpoi, stilemi, temi e non li aggiorna, ma anzi ne offre la copia sbiadita e fuori tempo massimo; che gioca con i registri (il tragico, il comico) senza riuscire ad azzeccarne uno: prova a far ridere ma irrita, prova a disturbare ma fa sogghignare.
C'è il rapporto realtà-finzione, il blocco dello scrittore, il legame tra lecito e illecito. C'è una materia di partenza affascinante e complessa, l'ideale per una narrazione avvincente e stimolante, ma Jacquot fallisce però proprio nell'adattamento di questa storia. I problemi di "Eva" risiedono sia nella sua scrittura - che poco approfondisce alcuni importanti passaggi di sceneggiatura e le psicologie dei personaggi, senza contare certi dialoghi di infima qualità - che nella sua messinscena: in fase di montaggio deve essere andato storto qualcosa, considerando come tutto il racconto abbia degli evidenti problemi di ritmo e di evoluzione drammaturgica. La relazione tra Eva e Bertrand manca di passione e coinvolgimento; il
focus su entrambi i protagonisti disperde le linee narrative e frantuma la coesione tra le varie parti della storia. "Eva" finisce con l'essere un
melò freddo e respingente, un
noir privo di tensione e ambiguità, a cui poi si aggiungono
ralenti insensati e una conclusione
kitsch - oltre che priva di qualsivoglia
pathos - dove Ulliel sfoggia una barba che, nonostante vorrebbe suggerire il degrado del suo personaggio, risulta così perfettamente curata da lasciare nello spettatore la sensazione opposta. Infine, ciliegina sulla torta, troviamo una coppia di attori dai nomi tanto altisonanti quanto fuori parte: l'inettitudine di Bertrand infastidisce più che divertire; la stessa Eva non possiede né
charme né sensualità.
"Eva", nonostante l'eleganza caratteristica dei prodotti da festival, è un fallimento estetico e artistico. E allora tutti i discorsi iniziali, su quella che sarebbe dovuta essere "la versione di Jacquot", passano in secondo piano. Anzi: perdono completamente di significato. Perché di fronte a un'opera così incompiuta, inerme e involuta, tutte le possibili riflessioni appaiono inutili, prive di qualsiasi importanza e rilevanza.