Non servono le parole a Skolimowski per raccontare la sopravvivenza dell'uomo braccato, i meccanismi di difesa, l'omicidio reiterato come risorsa. Per farlo sceglie un combattente afghano catturato dall'esercito americano e trasferito in una regione montuosa e isolata dell'Est europeo. Durante il trasporto Mohammed (anche i nomi sono inutili) riesce a fuggire fortunosamente. Già assordato da un'esplosione in Afghanistan, si ritrova immerso nel bianco selvaggio di una foresta.
Dai crateri e dalla sabbia mediorientale agli alberi e la neve il passo è più breve di quanto sembri.
Vincent Gallo, muto per tutto il film salvo grida e versi animaleschi di dolore, non ha bisogno di capire la lingua del nemico. Il nemico, anzi, scompare e diventa chiunque, qualunque cosa. Ogni linguaggio diventa superfluo, trascurabile. Perfino il luogo in cui ci si trova non è mai esplicitato. Uccide, gratta nei formicai, le cortecce dei pini, si ferisce, combatte, scappa e si nasconde. Allucinazioni visive, uditive, arrampicate, cadute, corse. Qualche flashback sbiadito che dice poco o niente sul passato del protagonista, anche quello un tempo inutile: conta solo il presente, la fame, i minimi termini della sopravvivenza. Solo pochi istanti di pietà, rari, come un sentimento dimenticato. Nessuna etica e scrupoli minimi. Per il resto c'è solo l'affanno della preda senza speranza.
Skolimowski - che qui ritrova Jeremy Thomas, già produttore de "L'australiano" - alterna vedute aeree a soggettive, soprattutto nella prima parte. I paesaggi, anche se differenti si somigliano: sono campi di battaglia, ostili luoghi di morte. Ci fa immedesimare nella cattura del protagonista, respirare con lui, smettere di sentire e di vedere. Per poi staccarvisi lentamente, guardarlo, seguirlo oggettivamente camera a mano, spostarsi al di fuori di lui per vederlo - per vederci - lottare e sopravvivere. Un'empatia impossibile, eppure necessaria, sgradevole. Una storia esile ridotta al minimo, che passa attraverso punti prevedibili. Ma al regista polacco sembra interessare poco lo sviluppo narrativo, quanto l'istinto primordiale dell'omicidio, forse addirittura il suo fascino atavico.
Come affascinato da un altro grido, che lega l'uomo alla propria animalità. La sopravvivenza spinta fino a gesti estremi (steinbeckiani), disgustosi ma necessari. Le musiche sottolineano lo smarrimento, la perdita di sé stessi, della ragione.
Un po' sopravvalutato a Venezia 2010, Vincent Gallo che, pur donandosi completamente al personaggio con una prova fisica (oltre che attoriale) estrema, appare a volte convincente, a volte un po' troppo sopra le righe (vedi scena dell'allucinazione) nel suo spaesamento totale, la disperazione disegnata nel volto. Discutibile poi la scelta di un attore americano per il ruolo di un afghano, nonostante non debba mai parlare, al di là dell'universalità del personaggio-preda.
Anche il film in sé procede in maniera più tradizionale di quello che ci si potrebbe attendere da Skolimowski, nonostante i molti premi raccolti. Film significativo, fatto per sottrazioni e per via di levare, che si poggia sul suo protagonista, ma non particolarmente viscerale come ci aspetterebbe.
03/06/2011