Non è semplice ricostruire le biografie e gli universi affettivi degli autori dei capolavori della letteratura mondiale ponendo davanti agli occhi dello spettatore le motivazioni profonde che li hanno generati. L’attrice Frances O’Connor, per la prima volta dietro la macchina da presa, ci prova con "Emily", più che un biopic un film d’ambiente dalla marcata impronta melodrammatica. E i risultati sono appprezzabili.
Nella nutrita serie di pellicole incentrate sulla figura di Emily Brontë, alcune esulano dal cipiglio filologico della precisione preferendo mettere l’accento su altri aspetti propri della scrittrice inglese. Misurare l’arte con il compasso e il righello, infatti, non necessariamente equivale a comprenderla negli aspetti più reconditi e inediti. Così, è da "Devotion" (1946) di Luis Buñuel, da "The Brontë Sisters" (1979) di Andrè Techinè e da "To Walk Invisible" (2016) di Sally Wainwright che Frances O’Connor ha tratto ispirazione. Ricorrendo cioè alla medesima ricetta che ha permesso all’omonima protagonista del film di essere ancora riconosciuta come una delle più apprezzate autrici della letteratura inglese: l’invenzione.
Strutturalmente il lungometraggio riecheggia il capolavoro della Brontë. L’incipit è infatti costituito da una cornice esterna dalla quale parte un lunghissimo flashback sulla vita della scrittrice, alla quale si ritorna prima della conclusione del film. “Come hai scritto Cime Tempestose? È un libro brutto, meschino e pieno di gente egoista”, chiede Anna alla sorella Emily in punto di morte. La risposta sembra apparentemente improntata all’humour britannico: “Poggiando la penna sulla carta”. A ben guardare, tuttavia, non si tratta solo di una battuta: collocata in apertura, l’affermazione suggerisce al pubblico che la domanda di Anna è mal posta, un po’ come lo sono le aspettative del pubblico rispetto al focus del film. Le parole di Emily e la pellicola sono dunque una rivendicazione della libertà artistica tout court, non solo di marca letteraria. Tra l’altro, il concetto di libertà (libertà di parola e pensiero!) è una delle chiavi di lettura dell’interno film, come emerge soprattutto nel rapporto di Emily col fratello Branwell. Ciò chiarito, sarebbe privo di senso cercare col piglio dell’investigatore episodi che non collimano con la biografia della protagonista. Le libere scelte operate dalla regista sul soggetto del film risultano motivate anche per un’altra importante ragione: giacché la più accreditata biografia su Emily Brontë è attribuita alla sorella Charlotte, stanti i difficili rapporti tra le due sorelle sarebbe stato comunque aleatorio attenersi pedissequamente alle parole di quest’ultima. Vista in quest’ottica, l’inedita relazione tra Emily e l’istitutore di famiglia William Weightman da un lato contamina il biopic con un riuscito melodramma, dall’altro costituisce agli occhi del pubblico il vissuto emotivo che diventa plausibile molla motivazionale alla stesura di "Cime tempestose". In questo modo vita e opera si saldano in un connubio tale che l’attività letteraria sa di passaggio naturale, di scrittura necessitante. Perciò anche altri dettagli su cui la O’Connor insiste, come la dipendenza dall’alcol e dall’oppio di Branwell, non vanno intesi alla lettera ma come trasfigurazioni del vuoto affettivo materno. Tornando al rapporto tra biopic e melodramma, tutta una serie di stilemi ascrivono il film al secondo genere piuttosto che al primo: la passione profonda e socialmente impossibile tra Emily e William; il sacrificio femminile a vantaggio del patriarcato; il concetto secondo cui il grande amore intercorre con la persona della porta accanto, come ne "La Gradiva" di Wilhelm Jensen; la malattia considerata come dazio imposto dal destino alla passione [1]
Quanto al linguaggio, la regista predilige inquadrature strette sul volto dei personaggi, che ne esaltino le passioni. Notevole l’interpretazione di Emma Mackey dalla quale, sia detto per inciso, non si poteva certo pretendere un femminismo di maniera. Tra gli oggetti, due rivestono in altrettante scene un ruolo importante: la maschera che viene utilizzata nel gioco di società e che rappresenta la finzione e l’ipocrisia come il volto verace del perbenismo vittoriano; il corsetto di cui Emily si libera nell’incontro con William, che simboleggia la costrizione fisica e morale al contempo. Peso determinante riveste la descrizione degli ambienti, sia in interni che in esterni. Le inquadrature trasudano di vittoriano, un po’ come in "Tess" (1979) di Roman Polanski. La fotografia, così come la scenografia, è sontuosa, ma mai eccessiva. Gotica, talvolta plumbea l’atmosfera, grazie alla pioggia al cui ritmo sembra talvolta battere il cuore della protagonista. Alla pioggia e al vento è d’altra parte associata una malattia tipicamente ottocentesca: la TBC. Ancora, se la casa dei Brontë è il luogo dell’ossequio al patriarcato, della pruriginosa moralità anglicana e delle asfittiche lezioni di francese, la brughiera è quello dell’anima, delle fantasticherie giovanili, dell’esercizio della libertà. Decisivo e mai ridondante il contributo della colonna sonora, grazie al violino di Abel Korzeniowski che preannuncia il mood adeguato soprattutto grazie ai crescendo.
[1] L. Albano, Il cinema e l'oggetto perduto. Marsilio, Venezia, 2022, pp. 17-48
cast:
Oliver Jackson-Cohen, Emma Mackey, Fionn Whitehead, Amelia Gething, Alexandra Dowling
regia:
Frances O Connor
titolo originale:
Emily
distribuzione:
BIM Distribuzione
durata:
130'
sceneggiatura:
Frances O'Connor
fotografia:
Nanu Segal
scenografie:
Cathy Featherstone
montaggio:
Sam Sneade
costumi:
Michael O'Connor
musiche:
Abel Korzeniowski