Nel 2016, anno delle elezioni americane più sconvolgenti degli ultimi decenni, un giovane studente di Yale, allora sconosciuto, dava alle stampe "Hillbilly Elegy": tragico memoir familiare che nel raccontare le drammatiche vicende di una famiglia, forniva al contempo un affresco di quell’America disperata e abbandonata a se stessa che di lì a poco avrebbe consegnato la Casa Bianca a Donald Trump.
J.D. Vance nasce in Kentucky, ma presto si trasferisce in Ohio, in quella cosiddetta Rust Belt che da decenni occupa un posto di primo piano all’interno del dibattito politico statunitense. La famiglia Vance ha numerosi problemi: la madre di J.D., Beverly, è una giovane donna vinta dal destino e da tempo arresasi di fronte alla vita, priva di un lavoro fisso, incapace di mantenere una relazione sentimentale stabile e con una dipendenza da psicofarmaci che la porterà presto, una volta priva delle necessarie prescrizioni mediche, a passare all’eroina (la cosa è più comune di quanto si possa pensare negli Stati Uniti). J.D. è un ragazzo brillante, che passa il tempo libero a guardare i dibattiti di Al Gore in TV, ma che si trova gettato in un contesto di violenza e disperazione che lo spinge presto verso fenomeni di devianza sociale. Sarà la figura della nonna a salvare J.D. e a permettergli di rifarsi una vita e di frequentare uno dei college più rinomati di tutta l’America, dove scriverà l’elegia di quei tempi amari, ma che furono pur sempre i tempi della sua infanzia e adolescenza.
Tradurre nel linguaggio cinematografico una narrazione di questo tipo, non era per nulla facile, e non si può dire che Ron Howard ci sia riuscito. Il primo problema è che risulta davvero difficile (lo abbiamo visto anche in passato) sfuggire a certi canoni estetici propri di Netflix, che se risultano particolarmente vincenti nella costruzione di serie di successo, possono diventare nocivi quando si tratta di lungometraggi. Certo, non mancano registi che pur sfruttando il colosso dello streaming nell’erogazione di grossi budget produttivi e nella distribuzione capillare dei contenuti, riescono comunque a lasciare un’impronta autoriale: ci riuscì Scorsese con "The Irishman" e proprio in questi giorni stiamo assistendo al successo di "Mank": ultima fatica di David Fincher, targata Netflix.
Ron Howard, che certo non ha il carisma autoriale di uno Scorsese o di un Fincher, sembra più disposto a venire a patti con le istanze della piattaforma ospitante e anche se il lungometraggio non è direttamente prodotto da Netflix, il cineasta dell’Oklahoma sembra ben lieto di adeguarsi agli stilemi del suo distributore.
I campi medi e lunghi sono quasi totalmente assenti, ma al contempo non vengono sfruttate le potenzialità del primo piano, e così facendo si giunge sovente a inquadrature che risultano affaticanti perché non lasciano allo spettatore lo spazio per respirare. La fotografia è assolutamente neutrale, rinuncia a partecipare alla caratterizzazione della vicenda e non indugia quasi mai nei panorami post-industriali che potrebbero aiutare nel dare al film una chiave di lettura socio-politica più graffiante. Nemmeno le musiche, firmate dal pluripremiato Hans Zimmer, riescono a emergere da quell’alone di mediocrità che avvolge l’intera pellicola.
Ma la colpa più grave dell'opera è forse quella di non aver saputo sfruttare a pieno le potenzialità degli attori protagonisti: il personaggio di Glenn Close diventa una macchietta arcigna e scorbutica che sembra la versione femminile del protagonista di "Gran Torino", mentre il talento di Amy Adams risulta assopito.
Certo, la vicenda qui raccontata è una narrazione corale (o per lo meno familiare), ma qui sembra mancare proprio questa visione d’insieme; la capacità di prendere le vicende particolari che vengono rappresentate e di leggerle quali sineddoche di un più vasto dramma sociale; di trasformare l’elegia della famiglia Vance nell’elegia di un popolo, di un paese, in un’elegia che sia veramente "americana".
cast:
Amy Adams, Glenn Close, Gabriel Basso, Haley Bennett, Freida Pinto, Bo Hopkins, Owen Asztalos
regia:
Ron Howard
titolo originale:
Hillbilly Elegy
distribuzione:
Netflix
durata:
117'
produzione:
Imagine Entertainment
sceneggiatura:
Vanessa Taylor
fotografia:
Maryse Alberti
scenografie:
Molly Hughes
montaggio:
James D. Wilcox
costumi:
Virginia B. Johnson
musiche:
Hans Zimmer, David Fleming