"Due partite", per chi non lo sapesse, nasce come testo teatrale scritto da Cristina Comencini, messo in scena e portato con successo in giro per l'Italia fino a qualche tempo fa dalla stessa regista assieme a un affiatato gruppo di attrici: Margherita Buy, Isabella Ferrari, Marina Massironi e Valeria Milillo.
L'intento, molto semplice, è quello di raccontare attraverso due incontri "al femminile" dilatati nel tempo l'evolversi e il mutare delle dinamiche sociali e dei rapporti di coppia dal punto di vista delle donne (ogni presenza maschile, seppur motore di partenza di ogni chiacchericcio, è bandita): e così se negli anni 60 si parlava di matrimoni, tradimenti nascosti, mariti assenti, famiglie da accudire e governare, nei 90 si arriva a discutere di gravidanze in provetta, di vita di coppia sfalsata dagli orari di lavoro, di solitudini. Ad accomunare queste due generazioni sembra soltanto essere l'infelicità costante che deriva da ogni situazione personale, e i tentativi più o meno riusciti di porvi rimedio e soluzione.
La scelta di puntare su un cast di attrici affermate e talentuose, nonché di assoluto "richiamo" (magari con l'unica eccezione della pur brava Milillo) rendeva già meritevole di nota l'operazione; ad aumentare la curiosità l'espediente di far impersonare alle stesse quattro attrici sia le madri che le figlie, creando così uno spessore psicologico notevole nonché un fitto gioco di rimandi fra le varie coppie di personaggi: la Buy prima costretta ad abdicare alla carriera artistica (mamma), poi a essa totalmente assogettata (figlia); la Ferrari prima devota e fedele al progetto di famiglia (mamma) e poi da essa tradita (figlia); la Massironi prima spaventata dalla gravidanza (mamma) e poi disperata nella sua ricerca (figlia); la Milillo prima imprigionata nei meccanismi dell'adulterio (mamma), poi in quelli della vita coniugale (figlia).
Tutto questo, quindi, a teatro. Una volta pensata l'inevitabile trasposizione cinematografica, due erano i nodi da sciogliere: come rimpiazzare i personaggi delle figlie (il trucco del "doppio personaggio" era credibile a teatro, meno al cinema) e soprattutto come far funzionare anche al cinema una storia pensata e costruita appositamente per il palcoscenico, vale a dire svolta essenzialmente in un unico luogo e tempo (seppur in due turni), e basata esclusivamente sulla caratterizzazione dei personaggi e sui loro continui dialoghi.
Per quanto riguarda la prima questione, felice è stata l'idea di creare un "cast antagonista", facendo slittare la Milillo nel
parterre delle figlie e chiamando la Cortellesi in quello delle madri: evidente è quindi l'ulteriore contrapposizione che si presenta, laddove al binomio "madri/figlie" si aggiunge quello "attrici famose e affermate/attrici giovani e (più o meno) emergenti". Questo giocare sui contrasti, anche a livello tematico (il tono ironico, allegro,
pop e ipercolorato della prima parte che tanto ricorda per accostamento l'Ozon di "
8 donne e un mistero", si contrappone in questo senso al grigiore mesto e serioso della seconda) crea comunque uno sbilanciamento evidente, tanto che si arriva quasi al paradosso che le "ultime arrivate", con la loro recitazione pacata e realistica (nonostante l'accentuazione da nevrotica della Crescentini o da macchietta della Milillo) risultano migliori delle "prime della classe", troppo spostate sull'enfasi comica (i siparietti fra la Buy e la Massironi) o drammatica (i monologhi della Cortellesi). Col risultato che la Pandolfi da una parte e la Ferrari dall'altra escono da questa "sfida a otto" come indubbie vincitrici.
Per quanto riguarda la questione "teatro al cinema", invece, il risultato è leggermente deludente, bisogna ammetterlo. Enzo Monteleone, che già in "El Alamein" riproponeva un minimalismo di luogo, azione e personaggi, qui sembra davvero troppo asservito alla recitazione del cast per poter provare a metterci anche del suo: accenni leggerissimi di piani sequenza o profondità di campo per poi andare dritto sicuro su primi piani, controcampi, persino "piani d'ascolto" alla lunga anche fastidiosi dove, puntualmente, una delle attrici (più spesso la Buy e la Massironi) commentano mimicamente con smorfiette o espressioni facciali quanto è stato detto o comunicato dalle altre.
La musica: puntare su Mina (primo vero esempio tra l'altro di
star femminile emancipata, nell'Italia dei 60) va benissimo; il problema è la musica diegetica presenza fissa (e pur'essa fastidiosa) come sottofondo di ogni monologo.
E quelle carrellate finali con tanto di sguardo in camera sanno proprio come tentativo ultimo e disperato del mezzo cinematografico di impossessarsi di qualcosa che in fondo non gli è mai stato proprio sin dall'inizio.
30/03/2009