La vita ne è piena, per cui immaginiamo che neanche Paolo Franchi si stupisca più di tanto del paradosso che ne accompagna la carriera di regista, della quale si tende a ricordare più gli scandali e le polemiche suscitate dalle sue opere che le qualità di volta in volta riconosciutegli soprattutto dagli osservatori stranieri. È pur vero che, a cominciare dalla sua opera d'esordio, tutti i film dell'autore bergamasco hanno sempre coltivato l'ambizione di dialogare con una platea più internazionale che italiana. A dircelo, è, per esempio, la predilezione per una città di confine come Torino, che gli ha consentito una naturale osmosi con il cinema d'oltralpe, importato attraverso le interpretazioni dei vari Bruno Todeschini, Irene Jacob (presenti in "Nessuna qualità agli eroi", 2007) e Jean-Marc Barr ("E la chiamano Estate", 2012). E, ancora, una tipologia di messinscena nella quale al diradamento dei luoghi più istituzionali del cinema italiano - la famiglia e la città - ha sempre corrisposto una ricchezza di riferimenti stilistici, iconografici, psicanalitici e della sfera erotica che in termini di erudizione e consapevolezza poco hanno da spartire con la maggior parte del nostro cinema contemporaneo. Da qui, forse, la reazione spesso veemente di spettatori e addetti ai lavori, messi a disagio da una narrazione poco disposta al compromesso e per nulla desiderosa di accondiscendere - come invece accade da altre parti - alla congenita pigrizia del pubblico nostrano. D'altro canto, non esente da difetti, il cinema di Franchi ha sempre avuto tra le sue costanti quella di non riuscire a mantenere l'equilibrio tra le componenti interne al suo dispositivo, con eccessi di levigatezza e autoreferenzialità che alternativamente hanno riguardato tanto l'esposizione narrativa quanto la composizione scenica.
Tutto questo per significare che "Dove non ho mai abitato", anche in considerazione di arrivare dopo un film controverso e, in fin dei conti, penalizzato in termini di visibilità come "E la chiamano estate", aveva il compito non facile di riallacciare i fili di un dialogo - quello con il pubblico italiano - interrotto anzitempo. Per farlo, Franchi si affida a ciò che meglio conosce, e quindi, decide di raccontare ancora una volta i fantasmi dell'amore. Non è dunque un caso se, Francesca e Massimo, i protagonisti dell'opera, sono due personaggi caratterizzati da un non detto emotivo che li porta a non essere mai veramente presenti nei confronti dell'altro. Abituati a fuggire dai legami che ne potrebbero svelare le rispettive fragilità (un leitmotiv del cinema di Franchi), entrambi vivono l'esistenza per interposta persona, più da testimoni dei fatti che in qualità di artefici. Il che, per molti versi, ci riporta a "La spettatrice" da cui "Dove non ho mai abitato" riprende non solo parte dei temi (per esempio quello dell'incomunicabilità) ma anche, ed è ciò che più ci interessa far notare, alcune peculiarità formali che vanno in direzione di una compostezza e una linearità finalmente ritrovate. Franchi filma nella maniera più classica l'oggetto dell'analisi, ossia la possibilità di un sentimento amoroso che si affaccia per caso nel momento in cui l'uomo e la donna si ritrovano in qualità di architetti a occuparsi del progetto di una villa dove dovrà andare ad abitare una giovane coppia di innamorati - spazio amoroso che Francesca e Massimo immaginano per sé ma costruiscono per conto di terzi.
Tanto enigmatici e ambigui erano stati i lavori precedenti, tanto è scoperto e dichiarato il nuovo: da un lato, "Dove non ho mai abitato" ci presenta i protagonisti e la loro chiusura verso il mondo, che il regista si preoccupa di destabilizzare con la progressiva messa a nudo delle loro personalità e con il ribaltamento dei rapporti di forza tra le parti; dall'altro, procede a un impiego delle immagini e dei suoni che, in maniera coerente, sono utilizzati per fare da diapason agli stati d'animo di Francesca e Massimo. A differenza di altre volte, la regia di Franchi ci sottrae il corpo dei personaggi e quindi la loro carnalità per restituirceli - attraverso un'abbondanza di primi piani - nella misura che li contraddistingue dal punto di vista sentimentale. Ed è proprio il lavoro di sottrazione operato prima sul testo della sceneggiatura e poi sul set, lavorando sulle interpretazione trattenute dei bravi Emmanuelle Devos e Fabrizio Gifuni, a costituire la parte migliore del film, insieme alla combinazione tra la rarefazione della resa attoriale e la presenza decisa di musica (Pino Donaggio) e fotografia (un Fabio Cianchetti in versione depalmiana) che, insieme, concorrono a definire i tratti di una passione a lenta combustione. Semmai, abituati alle vertigini cinematografiche di Franchi, la coerenza di "Dove non ho mai abitato" lo fa sembrare a tratti semplificato e un po' scontato. Forse ha ragione Franchi nel dire che ai critici non va bene niente e, comunque, pur fidandoci delle nostre sensazioni non ci sentiamo di sminuire la bontà del suo lavoro.
cast:
Fabrizio Gifuni, Emmanuelle Devos, Giulio Brogi, Hippolyte Girardot, Isabella Briganti, Giulia Michelini
regia:
Paolo Franchi
distribuzione:
Lucky Red
durata:
97'
produzione:
Pepito Produzioni, Rai Cinema
sceneggiatura:
Paolo Franchi, Rinaldo Rocco, Daniela Ceselli
fotografia:
Fabio Cianchetti
scenografie:
Giorgio Barullo
montaggio:
Alessio Doglione
costumi:
Grazia Colombini
musiche:
Pino Donaggio