In quale preciso momento un individuo smette di essere quello che crede di essere?
Mi tagli un braccio... Va bene, io dico me e il mio braccio.
Mi tagli anche l’altro braccio... Io dico me e le mie due braccia.
Se mi tagli pure la testa cosa direi? Me e la mia testa o me e il mio corpo?
Che diritto ha la mia testa di chiamarsi "me"?
Trelkowski ("L'inquilino del terzo piano" di Roman Polanski)
Traendo ispirazione dal racconto di Guillaume Laurant, "Happy Hand", il quarantacinquenne animatore francese Jérémy Clapin ha realizzato il suo primo lungometraggio, "J'ai perdu mon corps", "ho perso il mio corpo", acclamatissimo all’ultima Settimana della Critica a Cannes. L’esordio, lo diciamo sin da subito, importante di Clapin può considerarsi una sorpresa a metà perché già dal 2006 al 2012 i suoi cortometraggi contenevano i prodromi di uno slancio autoriale più che accennato, brevi squarci di delicata e nostalgica poesia incentrati su deformità, psicosi e diversità che riaffiorano insieme nell’intreccio dell’ultima opera.
Naoufel è un giovane orfano che ha perso la mano destra in un terribile incidente. L’arto, depositato in una cella frigorifera dell’ospedale, rifiuta la separazione e intraprende un tortuoso viaggio tra la Banlieue alla ricerca del corpo. Lunghi flashback ripercorrono vecchi ricordi e remoti avvenimenti di Naoufel prima dell’incidente. Il salto in lungo di Clapin non è solo nel metraggio della pellicola bensì nella maturità che contraddistingue "Dov’è il mio corpo?" dai corti animati precedenti. A cominciare dalla gestazione di sette lunghi anni. La sfida più difficile vinta dal cineasta francese è senza dubbio la mirabolante impresa di consegnare espressioni e sentimenti a una mano, a cominciare dai suoi ricordi di infanzia disegnati in un asettico ma vivido bianco e nero. Un nuovo vocabolario dei sensi in grado di far interagire un arto umano con le pulsioni umane dello spettatore.
Il racconto segue due linee ben distinte, il viaggio della mano e il processo di innamoramento di Naoufel con Gabrielle. Entrambe le linee confluiscono nel destino, concetto cardine dell’opera che permette al ragazzo di "liberarsi" prima che sopraggiungano i titoli di coda. La sequenza emblematica vede infatti il ragazzo confidare a Gabrielle il suo bisogno di dribblare il destino spiazzandolo con un gesto, un’azione al limite del razionale, del nonsense, della sanità mentale ("Skhizein" del 2008 è forse il cortometraggio che meglio si accorpa a quest’ultima opera in termini di distanza e psicosi) al fine di raggiungere una libertà soprattutto emotiva.
Attraverso un lodevole connubio tra disegno e musica, "J'ai perdu mon corps" è in definitiva un’opera cruda e al tempo stesso delicata che mediante una potente dose nostalgica mira a far riflettere sull’identità del nostro corpo, sull’amore e la rivalsa, sul ritrovarsi, sul desiderio di fuggire dall’opprimente peso del destino.
cast:
Hakim Faris, Victoire Du Bois
regia:
Jérémy Clapin
titolo originale:
J'ai perdu mon corps
distribuzione:
Netflix
durata:
81'
produzione:
Marc du Pontavice
sceneggiatura:
Jérémy Clapin, Guillaume Laurant
montaggio:
Benjamin Massoubre
musiche:
Dan Levy