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recensione di Diego Capuano
8.5/10

Per ogni età da lui e da noi vissuta, abbiamo attraversato la soglia e gli interni dei film di Pedro Almodóvar con ritmi e cadenze proprie di date epoche, di fasi di vita: il furore del punk‘n’roll, gioventù dell’oggi senza passato e presente; la consapevolezza del maturo flamenco, tra allegrie e dolori, pulsioni del melò, sangue e lacrime; il tango abitato da spiritualità, note di arte e vita; la serena melodia dell’infanzia, echi di fanciullezza per serene vecchiaie.
Tracce e riverberi, rimandi più o meno velati: un nuovo lavoro di Almodóvar saprà essere tassello di un cammino che continua a guardare avanti ma quanto più sarà capace di udire i canti di arte e vita passata, tanto più sarà in grado di brillare di luce propria.

"Dolor y gloria" è una tavolozza dell’oggi e come tale distilla la sua controllata limpidezza, in tempi recenti già più che suggerita. Evoluzione stilistica che trovò nei sanguigni colori e negli eccessi del melodramma duro e puro quell’aggettivo, almodovariano, in voga tra critica e pubblico nel corso dell’ultimo trentennio, e che nell’asciuttezza dell’oggi rimedita tali stilemi (si badi bene: senza rinnegarli o sminuirli in alcun modo ).
La gamma dei colori da "Dolor y gloria" amalgamati giungono dall’infanzia degli anni 60, quando il protagonista Salvador Mallo si trasferì con i genitori a Paterna (provincia di Valencia). E dalla Madrid degli anni 80, emozioni contrastanti di un grande amore trovato e poi perduto. Sono schegge che si dipanano nel corso del film mediante ricordi che affiorano per immagini soprattutto nella restituzione dell’infanzia di Salvador – con una onnipresente madre (Penélope Cruz) e un invisibile padre – e nella materializzazione del grande amore della sua vita, Federico, amato e perduto, ritrovato e consapevolmente lasciato andare.

Salvador Mello, un Antonio Banderas finalmente straordinario in quella che è, in assoluto, la migliore interpretazione della sua carriera, è il dichiarato alter ego di Almodóvar. Cineasta maturo che dopo una operazione alla spalla è martoriato da dolori fisici e da una depressione a lui già non estranea. Non basterà fumare eroina per trovare l’agnognata pace dei sensi, non massicce dosi di antidolorifici tritati per superare la gravosa impasse creativa.
Se le scenografie sono assemblate con una oggettistica proveniente dall’abitazione di Almodóvar e gli abiti che indossa Banderas direttamente dal guardaroba del regista spagnolo, le vicende presenti e passate di Salvador obbediscono ai liberi dettami della verosomiglianza ("Non ho mai fumato eroina", puntualizza il cineasta), in un cinema che può mentire e affabulare, per poi fare i conti con le verità e gli obblighi di una vita intera.

Quella a cui assistiamo è una intima e sussurrata ricognizione di vita più che un caotico e colorito assemblaggio di materiali e umori di matrice filmica. In virtù di ciò "Dolor y gloria" è una seduta psicoanalitica e un diario di memorie e, da grande artista quale è, Pedro Almodóvar tramuta le più intime delle esperienze in fertile terreno riguardante noi tutti. È un campo esperienziale che il regista presenta con esemplare chiarezza: nonostante sia quella di Salvador una ricognizione di anni e anni di vita vissuta, pochi sono i personaggi che ci vengono mostrati, pochi gli ambienti e pochi anche trucchi ed effetti scenici rispetto ad altri suoi film del passato.
L’emergere delle tante verità è affidato a un campionario di metodi basici del cinematografo, in una messinscena che ancora sa credere in una sfumatura attoriale come motore espressivo per cavare l’autenticità del personaggio, che sa utilizzare la scrittura di un dialogo per conquistare la spontaneità che si cela dietro alla parola. Esemplari sono in tal senso due sequenze, due incontri che si fanno ricongiungimenti ove in passato sarebbero degenerati in scontri: il misurato addio a Federico, amore di una vita nonché sottintesa fonte di ispirazione artistica, risolta in accenni, parole esplicate o trattenute, in uno struggente e casto bacio di vibrante erotismo, nel suggerire l’irrappresentabilità dell’amore assoluto; nel ricordo degli incontri ultimi con l’anziana madre, da annoverare tra le pagine più alte del suo cinema. La memoria, i rimpianti e l’attesa della morte, una carezza e un braccio offerto per rafforzare pochi claudicanti passi: la sincerità dell’insieme è pari soltanto alla commozione che genera. E consegna una tappa significativa nella rappresentazione dell’amore materno al cinema.

Nel restituire la crisi del suo Salvador, "Dolor y Gloria" sembra procedere con dimesso – e doloroso, per l’appunto – passo, in soffuso tono minore. Con il progredire dell’azione, contemporaneamente all’ottenimento dell’affresco globale, non ci si limita a rendere il giusto valore ai tasselli che hanno contribuito alla formazione di un insieme. Coronato da un’ultima inquadratura in grado di dirci da dove nasce e in che modo si sviluppa il crescente cammino emozionale. Eccola, allora, la rinascita. Eccolo, dunque, il cinema. Pedro Almodóvar approda alla rivelazione del bionimo cinema-vita, che durante la visione di un film diamo generalmente per scontata.
"Il primo desiderio": quello sessuale, ritornante mediante un povero disegno arrivato da tempi remoti.
"Il primo desiderio": il cinema, rigeneratore di vita.
Eccoli, dunque udibili, i canti della giovinezza. Intonati da un matriarcato posto in riva al fiume. Colorati dal bianco dei lenzuoli stesi al vento ad asciugare.


18/05/2019

Cast e credits

cast:
Antonio Banderas, Penélope Cruz, Asier Etxeandía, Leonardo Sbaraglia, Nora Navas, Asier Flores, Cecilia Roth, Raúl Arévalo, Julieta Serrano


regia:
Pedro Almodóvar


titolo originale:
Dolor y gloria


distribuzione:
Warner Bros.


durata:
113'


produzione:
El Deseo


sceneggiatura:
Pedro Almodóvar


fotografia:
José Luis Alcaine


scenografie:
Antxón Gómez


montaggio:
Teresa Font


costumi:
Paola Torres


musiche:
Alberto Iglesias


Trama
Una serie di ricongiungimenti di Salvador Mallo, maturo regista cinematografico. Alcuni sono fisici, altri ricordati: la sua infanzia negli anni 60 quando emigrò con i suoi genitori a Paterna, un comune situato nella provincia di Valencia, in cerca di fortuna; il primo desiderio; il suo primo amore da adulto nella Madrid degli anni 80; il dolore della rottura di questo amore quando era ancora vivo e palpitante; la scrittura come unica terapia per dimenticare l’indimenticabile; la precoce scoperta del cinema ed il senso del vuoto, un nuovo film da realizzare.