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4.5/10

Al suo secondo lungometraggio dopo “Cameraperson”, oltre che forte di una lunga esperienza come direttrice della fotografia, Kristen Johnson decide di affrontare la malattia degenerativa dell’anziano padre realizzando un documentario. La regista alterna i principali eventi riguardanti questo dramma alla storia della propria famiglia: è spiegato il loro credo religioso, viene raccontata parte della vita del padre, come il fatto che svolgesse la professione di psichiatra prima di andare in pensione, la deformazione ai piedi dalla nascita, la conoscenza e il rapporto matrimoniale con la madre, della quale veniamo informati del fatto che fosse affetta da demenza senile e che questa malattia l’abbia condotta alla morte. Vengono utilizzate sia delle fotografie, che ritraggono alcuni parenti lontani, quanto dei filmati familiari che mostrano la madre durante una fase avanzata  del morbo di Alzheimer, oltre ad alcuni stralci di pellicole che mostrano i genitori mentre passeggiano in un prato. Nel frattempo, non mancano le informazioni riguardanti la vita della regista: di lei sappiamo che abita a New York e che ha due figli, i quali vengono spesso mostrati mentre giocano con il nonno. La mattia del padre viene raccontata nelle sue fasi salienti: dalle prime avvisaglie, relative al fatto che sbagliasse ripetutamente nel fissare gli appuntamenti dei pazienti e che per questo abbia deciso di ritirarsi dal lavoro, alla vendita della sua macchina coincidente con l’abbandono della possibilità di guidare, dal trasferimento nella casa della figlia alle visite mediche volte a stabilire lo stato di salute della sua memoria. Il film tratta dunque dell’interazione fra la regista e la malattia del padre, si pone come lunga e anticipata elaborazione di un lutto a venire ma di cui Kristine è già dolorosamente consapevole per via dell’esperienza recente vissuta con la madre. Tutto ciò viene intervallato a degli sketch che danno il titolo al film: si tratta di gag che inscenano incidenti fasulli subiti dal padre e che, nella finzione, lo condurrebbero alla morte. Cade rovinosamente dalle scale, scivola per terra, un condizionatore gli precipita addosso volando da un edificio mentre cammina per strada, viene colpito da un chiodo all’arteria del collo... sono tutte scene che vengono realizzate al fine di simulare la dipartita di Dick. All’apparenza oscene, queste gag sono sicuramente grottesche ma vengono gestite dignitosamente dalla regista perchè non ci vengono mostrate direttamente, ma viene ripresa la loro realizzazione. Si tratta così di una sorta di “dietro le quinte” di queste “scenette” sadiche che hanno l’intento di stemperare l’oggetto drammatico del film, oltre che, ovviamente, di renderlo vendibile e appetibile al grande pubblico di Netflix. Queste gag, dal sapore vagamente slapstick, sono tanto grottesche quanto sono eccessivamente kistch le scene che ambientano il padre in un paradiso immaginario, caratterizzato da balletti, corone di fiori hawaiane e colori sgargianti, in un profluvio di immagini in slow motion alternati a tempi velocizzati, oltre che di inquadrature di dettagli come le parti del viso di Dick (la bocca e gli occhi) mentre si mostra esterrefatto. Questi due poli stilisticamente eccessivi del documentario testimoniano la sua componente finzionale e ludica, confermata dal fatto che questo paradiso è popolato da personaggi famosi come, non a caso, Buster Keaton, uno dei maestri del cinema slapstick. L’esorcismo dell’inevitabile conclusione è quindi affidata ad un registro duplice: da una parte, il racconto della malattia e la riflessione su di essa; dall’altra, la minimizzazione operata tramite la risata e la presa in giro. Infatti, all’interno del lungometraggio ascoltiamo la regista in fuori campo che definisce questo film una commedia.

“Dick Johnson is dead” è quindi un documentario che somma più forme filmiche: la finzione delle morti (che possono essere visti come una sorta di reenactment al contrario: un’anticipazione di un futuro già scritto), le riprese del “dietro le quinte”, una certa estetica formale che ricorda il videoclip nelle scene del paradiso, il recupero e il montaggio dei filmati di famiglia, l’auto-narrazione della propria intima vita quotidiana. Dunque, a ben vedere, siamo all’interno della forma performativa del documentario, considerando con questo termine i lungometraggi in cui «l’autore entra in relazione diretta con il soggetto ripreso o addirittura diventa egli stesso il soggetto della performance» (1). La regista, infatti, non parla davvero della morte, quanto della propria difficoltà di accettarla e della sua personale elaborazione del lutto. Si verifica inoltre una sorta di aderenza tra  quest’ultima e la realizzazione del film, cioè tra la gestazione dell’accettazione della dipartita e il processo di creazione verso un formato definitivo delle immagini riprese. Questo fatto è evidente soprattutto nei momenti in cui la regista ci racconta il farsi del film, la sua attuazione: ad esempio, nella scena in cui Dick si reca dalla dottoressa per svolgere esercizi sulla memoria, si verifica un duplice stacco, prima sonoro (sul colloquio fra il padre e il medico si innestano le parole fuori campo di Kristen che esprime le sue preoccupazioni per l’immediato futuro) e poi visivo (dal primo piano di Dick nella clinica passa a quello della regista che si filma mentre registra quello che sta dicendo in quel momento).

Il film come terapia personale, dunque, avvallato dall’autorità professionale del padre (ex psichiatra) che si dichiara d’accordo con il progetto della figlia. Il concetto di perdita e di lutto viene trattato a più livelli: è sia commentato e discusso tramite la voce fuori campo della regista, espediente usato per riflettere sugli eventi e sulle loro conseguenze emotive, sia filmato mentre coloro che si trovano in campo ne parlano, come alcuni membri della troupe che raccontano della perdita dei propri cari. Kristen si pone varie volte alcune problematiche etiche relative a ciò che sta facendo: sostiene che il padre ha acconsentito alla realizzazione del film, si chiede fino a dove può spingersi per non violare la dignità del genitore, mostra diverse volte Dick mentre è a suo agio con le riprese (lo si vede mentre parla e ride del fatto che verrà inscenata la sua morte più volte, si addormenta in una bara in cui è stato posto per la realizzazione di una scena). Le gag risultano accettabili proprio perché, lo ripetiamo, allo spettatore ne viene mostrata la realizzazione e non unicamente il risultato, evitando quindi uno shock reiterato che sarebbe stato totalmente futile e gratuito… fino alla parte finale del film: qui accade qualcosa di diverso. Per alcuni secondi ci vengono mostrate delle immagini riprese da una telecamera posta sul pavimento di un’ambulanza: si tratta di due inquadrature fisse, come se la macchina da presa fosse stata lasciata per terra per cause di forza maggiore, che ci mostrano prima un piede di un infermiere o di un medico, poi la parte interna del tetto della vettura. Nel frattempo, ascoltiamo le voci e i suoni concitati e caotici tipici di un momento di grande tensione e di emergenza. Successivamente assistiamo alle scene del funerale del padre: la macchina da presa indugia sui primi piani delle persone che parlano e che assistono alla funzione religiosa, si sofferma su un conoscente che si dispera e che piange mentre parla. Nel mentre, viene inquadrato Dick sdraiato nella bara al centro dell’altare. Stacco: la regista si filma insieme a suo padre mentre ascoltano la funzione fuori dalla porta principale della chiesa, per poi varcare insieme l’ingresso e partecipare alle sue stesse esequie.
Nel finale del suo documentario, dunque, Kristen sceglie per la prima e unica volta di ingannare lo spettatore e di mostrare non la realizzazione ma la scena in se stessa. Questo fatto, insieme alla decisione di far partecipare Dick, in una fase sicuramente avanzata della malattia, alla sua cerimonia funebre lascia quantomeno basiti. Quanto è possibile accertare l’effettivo consenso e la reale consapevolezza del padre affetto dal morbo di Alzheimer? Quanto è possibile spingersi nella spettacolarizzazione della morte di un proprio caro? Sono queste le domande fondamentali che la regista sceglie al termine di eludere, forzando in modo discutibile la rappresentazione filmica. È pur vero che «all’uomo del nostro tempo non è più consentito di avere esperienza della morte. Ne ha conoscenza, per così dire, solo spettacolare, cioè che non lo coinvolge personalmente e quindi priva di reazioni emotive, attraverso i film e la televisione» (2). Tuttavia, la spettacolarizzazione, attuata dalla regista soprattutto nel finale, eccede ogni possibilità di accettazione e di buon gusto.

«Assistiamo così al formarsi di uno style of dying, o piuttosto di un acceptable style of living while dying. L’accento è messo su acceptable. L’importante infatti è che la morte possa essere accettata o tollerata dai sopravvissuti» (4). In quest’ottica, forse più americana che generalmente occidentale, non si tratta di rendere omaggio al defunto, quanto di rassicurare coloro che gli sopravvivono, e che sono stati raggiunti nel loro intimo dallo spirito perturbatore della fine. È in questa considerazione che si colloca la problematica etica di base del film: non si tratta solo del fatto che il padre sia o meno in grado di esprimere un consenso, quanto che venga usato per uno scopo che riguarda unicamente la figlia e che, di conseguenza, usa la figura paterna come un oggetto per un’esigenza che non lo concerne. Non a caso il film non presenta delle riflessioni sul loro rapporto, sull’eredità spirituale che li unisce o sull’importanza che Dick ha avuto nella vita di Kristine. Il paragone con “Un’ora sola ti vorrei” di Alina Marazzi, documentarista di ben più alta statura, sorge quindi spontaneo: qui si trova una profonda riflessione sul rapporto con la figura genitoriale, su cosa quest’ultima abbia significato per la regista. Invece, “Dick Johnson è morto” è animato soprattutto dal desiderio di ampliare la memoria personale tramite il medium filmico usato in funzione suppletiva alla malattia specifica del padre, che comporta la progressiva scomparsa delle facoltà mnemoniche, oltre che dalla volontà di controllo sulla morte tramite la messa in scena dei suoi simboli (gli incidenti e il funerale).
Cosa rimane dunque del padre, se non il bisogno di affrontare la sua perdita giocandoci tramite un processo di spettacolarizzazione? Cosa rimane della figura paterna come concetto, come funzione psichica e come istanza morale? La regista non parla di questo, limitandosi ad esprimere il suo affetto per Dick, elogiandone l’intelligenza… ma nient’altro. Cosa resta dunque del padre? Forse questo documentario non rappresenta solo un tentativo di elaborare il lutto, quanto e soprattutto lo stato attuale di evaporazione della figura paterna.

 

(1) I. Perniola, L’era postdocumentaria, Mimesis, Milano-Udine, 2014, p. 66.

(2) A. Pieretti, La morte e il senso della vita nella cultura contemporanea, «Cultura & storia», v.101, n.1, 1987, p. 81.

(3) P. Ariès, Storia della morte in Occidente, BUR, Milano, 1998, p. 236.


19/03/2021

Cast e credits

regia:
Kirsten Johnson


titolo originale:
Dick Johnson is dead


distribuzione:
Netflix


durata:
89'


produzione:
Big Mouth Productions


sceneggiatura:
Kirsten Johnson, Nels Bangerter


montaggio:
Kirsten Johnson


Trama
Dopo aver perso la madre in seguito ad una lunga demenza senile, Krtister Johnson si ritrova a dover affrontare lo stesso dramma con il padre. Decide quindi di filmare il decorso della malattia al fine di elaborare ed esorcizzare il lutto per la futura perdita, inscenando, con il consenso del diretto interessato, delle "gag" riguardanti morti improvvise del padre causate da incidenti mortali.