Nella prima sequenza del film, un soldato del gruppo nazionalista "Tigri Tamil" che ha negli occhi immagini di orrore e di sangue, sta bruciando i corpi dei morti e, dopo aver gettato nelle fiamme i suoi abiti militari, ne indossa degli altri, completamente anonimi. Il protagonista si traveste, letteralmente, da civile con l'obiettivo di abbandonare lo Sri Lanka: insieme a una donna e a una bambina che non conosce, prende il posto di una famiglia uccisa (come i suoi cari) assumendo il nome di Dheepan e, indossando questa maschera composta da documenti trafugati e menzogne, arriva in Francia. Un taglio di montaggio improvviso come una rasoiata chiude il prologo, trasportandoci, accompagnati dal sacrale "Cum dederit" di Vivaldi, nel paese europeo dove l'ex-soldato è uno dei tanti patetici venditori ambulanti di paccottiglia e dove continua a fuggire, stavolta dalla polizia che lo rimpatrierebbe quale immigrato clandestino. L'uomo, pur di allontanarsi dalle forze dell'ordine, accetta il lavoro di guardiano nel condominio di una banlieue dominata da una gang dedita al narcotraffico. Il sistema di controllo del territorio è noto a chi abbia visto qualche episodio della prima stagione di "The Wire" o di "Gomorra" e qui viene riproposto senza essere approfondito. La criminalità è lo sfondo sul quale un impassibile Dheepan porta avanti i suoi lavori di manutentore, finché una faida tra gang non esplode nel cuore del quartiere rimettendo in discussione l'idea di tranquillità e di "nuovo inizio" che questa famiglia d'invenzione aveva in mente.
Diviene presto chiaro come lo sguardo di Jacques Audiard, benché partecipe delle traversie del suo personaggio, non inferisca direttamente il problema globale e attualissimo della migrazione né delle difficoltà di integrazione in una società sempre più multiculturale, quanto disegni un'altra traiettoria umana all'interno di uno spazio, fisico e mentale, che al regista appare tale e quale a una prigione. Dheepan è co-stretto nella banlieue e, pur abitando in una delle capitali della civilissima Europa, ritrova schemi e mentalità da cui era fuggito, ovvero uno stato di guerra. E, per di più, è la guerra a inseguirlo e a stanarlo, vista l'inaspettata visita di un allucinato colonnello che gli chiede di trovare i soldi sufficienti per acquistare un carico di armi da inviare ai commilitoni in patria: invero, questo è uno dei passaggi meno convincenti che, rimanendo monco, sembra assolvere solo il compito di far comprendere il trauma profondo riportato dal soldato.
Ancora una volta nel cinema del francese, la parola e il linguaggio assumono un'importanza strategica nella costruzione del suo mondo filmico: così come la sordità della protagonista di "Sulle mie labbra" la spinge a leggere le labbra per poter comunicare e così come l'educazione criminale di Malik inizia apprendendo il dialetto còrso, i personaggi di "Dheepan" vivono a lungo sconnessi dalla realtà circostante a causa del gap linguistico; ad esempio, in una scena Yalini parla con Brahim (il giovane boss del quartiere appena uscito dal carcere) nella sua lingua, confessando la messinscena eretta per vivere in Francia, dopo aver ascoltato a sua volta un discorso in francese dell'uomo. In un certo senso, "Dheepan" non è ambientato in Europa ma in un luogo ignoto; Audiard accentua il carattere claustrofobico e assediante della vita in città del cingalese e, in seguito, del suo confino nella banlieue: produce tale sensazione attraverso piani stretti e primi piani, convulsa macchina a mano, poi travelling laterali e dolly che mostrano dall'alto la separazione dei condomini dal centro urbano, la sua alterità autoregolata dalla vita criminale della gang. Il regista racconta la quotidianità della famiglia con uno stile asciugato e spoglio (colonna sonora ridotta al minimo essenziale), con lievi slanci visionari che permettono l'emersione dell'interiorità dei protagonisti, del mondo da cui provengono; l'immagine mistica del dio-elefante che guarda in macchina, i contrasti cromatici a cui partecipano anche i corpi degli attori, ombre che differiscono la loro uscita dalle tenebre. Come sempre Audiard ricerca i chiaroscuri, lame di luce che sciabolano nel buio: eccellenti, in tal senso, le intuizioni dei piccioni imprigionati che volano via dal tetto del condominio o il nitore del bianco manto di un pitbull che abbaglia Yalini nell'oscurità delle scalinate. La donna, vera coprotagonista, offre l'altra faccia della medaglia, la simulazione di un istinto materno quale parte di un progetto di sopravvivenza all'interno di un contesto dal quale mantiene un certo distacco. Il passare dei giorni nella reclusione di questo mondo, ironicamente denominato "Le pré" (il prato), pare vivificare la menzogna, piuttosto che procedere all'integrazione a cui auspica l'addomesticato Dheepan: da una famiglia assemblata artificialmente possono sgorgare sentimenti reali. Ed è forse per questo che l'uomo, che ha rinunciato a combattere per la sua patria, lotta per difendere il suo nuovo nucleo da non meno pericolose brutalità. Inizialmente lo fa semplicemente tracciando una linea bianca, un altro confine che separa il suo condominio dagli altri, allontanandolo solo simbolicamente da droga e proiettili. Dopo una graduale preparazione, giunge l'accensione violenta: Dheepan, chiamato a soccorrere Yalini, riattiva i feroci meccanismi del soldato. La memoria del corpo esiste e Audiard lo sa bene (si riveda la danza dell'amputata Marion Cotillard in "Un sapore di ruggine e ossa"); è il linguaggio del corpo a incidere davvero sul reale. La miccia della violenza, fino a quel momento sopita nell'uomo, si riaccende e brucia solerte tramutandolo in un inarrestabile dispensatore di morte, mentre sulle immagini cala una nebbiosa cortina onirica: quasi fosse la soggettiva interiore di Dheepan, da cui fuoriesce con lo schiaffo di Yalini, la quale lo ridesta dalle tenebre del suo cuore, per ricondurlo alla terra in cui è riparato per fuggirle.
Raffinato e originale metteur en scene di milieu e sottocodici criminali, Audiard persegue una via di liberazione per i suoi protagonisti imprigionati: dalla galera ne "Il profeta", dal corpo in "De rouille et d'os", dalla società stessa in questa sua ultima fatica, premiata con la Palma d'oro a Cannes. Alcuni potrebbero ripensare al cliché dei Vietnamese Movies, col reduce che conserva dentro di sé la guerra vista ed esperita altrove, ma se in quei casi il comeback avveniva spesso in una placida cittadina di provincia (basti pensare a "Il cacciatore" o all'ovvio "Rambo"), qui ci troviamo nel cuore dell'Occidente dove la guerriglia esplode senza che nessuna volante della polizia arrivi a difendere le persone comuni. Quello che "Dheepan" ha da dire sul piano politico si squaderna intorno all'idea di una realtà sociale che solo in termini perbenistici può affermare di essersi affrancata dalle barbarie e, nel caso della parabola di Dheepan, mostra come il travestimento dell'ex-soldato nel mite guardiano che capisce poco e lavora sodo sia un risvolto fallimentare del processo di integrazione, tanto quanto le reazioni collaterali che risvegliano in lui il cupo e sordo urlo di battaglia.
cast:
Marc Zinga, Claudine Vinasithamby, Vincent Rottiers, Kalieaswari Srinivasan, Antonythasan Jesuthasan
regia:
Jacques Audiard
titolo originale:
Dheepan
distribuzione:
Bim Distribuzione
durata:
109'
produzione:
France 2 Cinéma; Why Not Productions; Page 114
sceneggiatura:
Jacques Audiard, Thomas Bidegain, Noé Debré
fotografia:
Éponine Momenceau
scenografie:
Michel Barthélémy
montaggio:
Juliette Welfling
costumi:
Chattoune
musiche:
Nicolas Jaar