Quello della vagina dentata è un mito (e come tale da circoscrivere esclusivamente all'immaginario fantastico) non appartenente ad una specifica cultura ma, anzi, presente in più leggende, a partire da quelle provenienti dall'Asia sud-orientale, dove abbondano le storie riguardanti la rimozione dei genitali maschili.
Il regista Mitchell Lichtenstein, figlio del celebre Roy Lichtenstein, nome di punta nella storia della
pop art, alla sua opera seconda, cerca un approccio anomalo e personale, che se sulla carta promette di essere una sorprendente mina-vagante, a conti fatti è pure il suo limite, anche se il pericolo del
cult trash (da rivalutare magari con gli anni) è fortunatamente scampato.
Non che non abbia avuto fegato, l'autore: il tema può essere tanto di impatto assicurato quanto delicato e di non semplice amministrazione.
Dando un'occhiata alla trama, il lettore potrà pronosticare due alternative possibili: l'occhio cronenberghiano, che si pone a metà strada tra i primi film del maestro canadese (quasi in forma di
B-Movie) a quelli "chirurgicamente controllati" di metà anni 90 ("Crash" su tutti, ovviamente), oppure la scorciatoia che ci si aspetterebbe da un'opera prima di un giovane regista: lo
splatter che pesca a piene mani in certo horror degli anni 80 (da Stuart Gordon a Brian Yuzna), riveduto e corretto secondo gli stilemi in voga nel giovane cinema horror statunitense (risaputo, tranne che in isolati casi).
Lichtenstein opta per una terza via che vira verso toni grotteschi che qua e là toccano inevitabilmente meccanismi noti all'appassionato e numeroso pubblico del
teen-horror, per poi poggiarsi sulla base di un dramma psicologico non raramente improbabile.
Arduo dire se il film non sappia di preciso dove andare a parare o se invece la scelta di un andamento irregolare scada in una disomogeneità in fondo pronosticabile. Fatto sta che sono difficilmente comprensibili intenti e scelte dell'autore: la sequenza del ginecologo voleva davvero provocare le risate dello spettatore come puntualmente accade? E se sì: a che pro? Discorso analogo si potrebbe applicare ad altre scene della pellicola. Interpretazioni opinabili? Può darsi, ma è facile la rappresentazione della mutazione della ragazzina da verginella a vendicatrice (scontati anche i riferimenti femministi), e la doppia deriva finale (l'urlato scioglimento dei nodi familiari e la beffarda ultima inquadratura) è vagamente delirante.
Lichtenstein, in alcuni momenti, sa creare tensione ed atmosfera e l'abbozzo del parallelo tra malesseri privati con la società nucleare sullo sfondo è interessante (ma mai sfruttata e approfondita), e proprio per questo motivo sarebbe ingiusto condannarlo e non concedergli ulteriori possibilità, ma sarebbe preferibile un maggiore autocontrollo prima che un'adeguata maturità possa permettere di alzare il tiro.
31/08/2008