Il duo registico costituito da Carlo Luglio e Fabio Gargano confeziona un documentario con l’intento di fotografare la condizione degli artisti partenopei. Il titolo "Dadapolis - Caleidoscopio napoletano" è volutamente allusivo in quanto da un lato si rifà all'omonimo romanzo di Fabrizia Ramondino e Andreas Friedrich Müller, e dall'altro allude all'assoluta libertà dei molti artisti che compaiono nel docufilm. Sono infatti più di 60 le personalità che, con caleidoscopica successione, si alternano con domande, risposte, riflessioni, miti e aneddoti che delineano lo "stato dell’arte" da un’ottica che guarda soprattutto a un raffronto con il passato nel tentativo di delineare le qualità che rendano tale l’artista, distinguendolo, ad esempio, da chi può essere semplicemente definito un creativo.
Il documentario non si limita così a far emergere la napoletanità della vocazione artistica presente in ciascuno degli interpreti, ma prendendo le mosse da un quadro di profonda crisi e liquidità del contesto storico e culturale, sfata luoghi comuni e mette a nudo fatti passati sotto silenzio. Uno dei concetti chiave emergenti è, ad esempio, la constatazione che in un’epoca di sovraesposizione ai messaggi provenienti dai media, nella quale la maggior parte dei contenuti della comunicazione sembra diventata narrazione, contraendo un inevitabile debito nei confronti della plausibilità, ciò ha in qualche modo saturato il campo d’azione alla verve affabulatoria che è sempre stata alla base di tante forme d’arte tipicamente napoletane, quali il teatro e la letteratura. Freccia acuminata nella faretra dello sceneggiatore, la sensazione di precarietà, liquidità e imprevedibilità vissuta dagli artisti è restituita allo spettatore grazie alla trama che, sebbene costruita come un puzzle in cui tutte le tessere combacino perfettamente anche se diverse per foggia e colore, oscilla in modo quasi desultorio tra un artista e l'altro. Non c’è una voce narrante che tiri le fila, ma ogni artista dà il proprio contributo, quasi filosofeggiando, spigolando sul senso del tempo, dell’arte, della vita.
A conferma di tale impostazione, la pellicola è divisa in quattro sezioni intitolate, rispettivamente: "Fuoco. Creazione. La città e le sue trasformazioni; Terra. Concretezza. Creatività e Mercato; Acqua. Riunificazione. Morte e rinascita; Aria. Mobilità. Uno sguardo al futuro". Napoli è sì fatta di mattoni, ma la sua profondità artistico-filosofica non è esperibile con criteri edilizi o urbanistici, pertanto i registi si muovono tra le pieghe sinuose di una sirena ritratta sul fianco di un natante, o tra le foto in bianco e nero che comunicano l’inesorabilità del tempo se ritraggono le aree siderurgiche dismesse, oppure si limitano a mostrarci lo specchio di mare antistante la città, sempre in una dimensione interattiva, dialettica, osmotica con l’entroterra. Tanto da rovesciare il concetto stesso di migrazione: da Napoli, dice un artista, non c’è bisogno di migrare per immettere la propria vita in un contesto altro e schiuderle nuove opportunità, perché tale alterità è storicamente garantita dall’afflusso ininterrotto di nuove genti. L’approccio del film è, se vogliamo, minimalista, non vi sono grandi monumenti o opere che campeggiano in primo piano contendendosi il primato. Qui quel che conta sono i volti e le esperienze di vita vissute.
Le inquadrature sono sempre sobrie, non celebrano né limitano chi parla; l’artista è collocato in campo medio, talvolta in un totale, restituito al suo ambiente, semplicemente, all’aperto. La dimensione domestica, o peggio quella ufficiale, avrebbe sminuito la portata delle loro parole, che vanno anche oltre le opere da loro stessi prodotte. Le pareti delimitano, gli spazi aperti vivificano. Come i miti di Sibille e marinai hanno bisogno di aria e salsedine per essere più credibili e correre più celermente di bocca in bocca, così di un pittore o un fotografo molto si può cogliere quando si coglie cos’ha intorno. In Dadapolis le musiche assurgono a un ruolo sia formale che sostanziale; formale perché accompagnano e/o si intervallano alle sezioni del documentario, sostanziale perché sono esse stesse una delle forme d’arte intorno alle quali ruota il lavoro dei registi. Artisti che cantano o parlano mescolando al dialetto napoletano parole francesi o spagnole calcano così ulteriormente sul tasto della multiculturalità e della inestricabile eterogeneità del patrimonio culturale partenopeo. Il documentario è stato presentato a Venezia LXXXI, all’interno della sezione Giornate degli Autori.
cast:
Tonino Taiuti, Peppe Lanzetta
regia:
Fabio Gargano, Carlo Luglio
titolo originale:
Dadapolis - Caleidoscopio napoletano
durata:
82'
produzione:
Bronx Film, PFA Films, Antracine
sceneggiatura:
Carlo Luglio
fotografia:
Fabio Gargano
montaggio:
Alessandra Carchedi
musiche:
Daniele Sepe