recensione di Nicola Picchi
5.5/10
La madre di Benjamin muore dandolo alla luce e il padre, disgustato dal suo aspetto grottesco da ottantenne, lo abbandona sui gradini di una casa di riposo. Il bambino è scoperto da Queenie, la quale decide di tenerlo con sé. Qualche anno dopo Benjamin incontrerà Daisy, la giovanissima nipote di uno dei residenti dell'ospizio, e tra i due nascerà un amore che durerà tutta la vita. I due avranno però un tempo limitato per stare insieme, perché dovranno incontrarsi, per così dire, a metà strada.
"Il curioso caso di Benjamin Button" è ispirato alla lontana all'omonimo racconto di Francis Scott Fitzgerald apparso nel 1921, di cui mantiene lo spunto principale ma non l'epoca storica né i personaggi di contorno, peraltro sommariamente ritratti; l'idea del tempo che inverte il suo corso ha poi goduto di una certa fortuna, basti pensare a "In senso inverso" di Philip K. Dick o al nerissimo "La freccia del tempo" di Martin Amis. Per Benjamin il tempo scorre infatti a ritroso, nasce già vecchio, ringiovanisce, diventa un adolescente afflitto da senilità e alla fine neonato urlante per poi, s'immagina, tornare nell'utero (di chiunque, direbbe Woody Allen). Sembrerebbe l'escamotage ideale per una delicata meditazione sulla vita e sulla morte, se non fosse che lo sceneggiatore Eric Roth, già responsabile di "Forrest Gump", non resiste alla tentazione di fare di Benjamin un nipotino bastardo del Candido di Voltaire, proprio come Forrest. Di un'ingenuità disarmante, nonostante il suo aspetto lasci presupporre una profonda saggezza, Benjamin attraversa la storia del XX secolo senza confrontarsi con essa, sempre a latere, mantenendo un'assoluta purezza di sguardo e una totale passività. La II Guerra Mondiale, il dopoguerra e l'ondata libertaria degli anni sessanta passano invano, senza intaccare in maniera avvertibile la monoliticità del personaggio. Il tentativo di Fincher di comporre una dolente e malinconica elegia sul tempo e sulla memoria si scontra con l'alienità di Benjamin e, allo stesso tempo, con la sua prevedibilità hollywoodiana. Il ritmo è naturalmente episodico, come lo sono le vite di tutti viste in prospettiva, ma i momenti che si vorrebbero emotivamente toccanti lasciano indifferenti, svelandosi per trucchetti di seconda mano e furbizie del mestiere. L'incipit, con Daisy morente che si fa leggere dalla figlia Caroline il diario di Benjamin, lascia effettivamente presagire il peggio. Se poi l'ambientazione è un ospedale di New Orleans poco prima dell'arrivo dell'uragano Katrina, si può essere certi che quel peggio arriverà, cosa che puntualmente avviene. Tra momenti obiettivamente imbarazzanti (il viaggio in Tibet, la convivenza Pitt/Blanchett, che ricorda uno spot pubblicitario, la Parigi bohemienne del dopoguerra) e altri miracolosamente riusciti (l'incontro clandestino a Mosca con Tilda Swinton), i 167 minuti di durata della pellicola mettono più volte a dura prova la pazienza dello spettatore.
La responsabilità è parzialmente anche di David Fincher; la sua regia è ambiziosa, ossessivamente meticolosa e ai limiti con il formalismo, ma il punto è che una tale pachidermica magniloquenza fagocita tutto il resto, storia e attori compresi. Senza contare che il kitsch è sempre dietro l'angolo persino nelle scene più riuscite, come nella storia dell'orologiaio che dà il via al film, nella virtuosistica sequenza del taxi o nel nostalgico finale. I composite realizzati dalla Digital Domain, in cui il volto digitalizzato di Brad Pitt viene sovrapposto a corpi diversi in differenti età della vita, sono obiettivamente stupefacenti, anche se la cosa più sconcertante non è tanto vedere un Pitt ottantenne, quanto rivederlo giovanissimo come ai tempi di "Thelma & Louise"; è solo in quel momento che ci si rende conto dell'effettiva inammissibilità del processo del ringiovanimento, nonché l'unico istante in cui lo spettatore lo avverte in maniera tangibile sulla propria pelle. Il sobrio realismo raggiunto nel make-up si contrappone alla sostanziale irrealtà delle scenografie, spesso ai limiti con l'astrazione. Una mossa indovinata che, assieme alla splendida fotografia di Claudio Miranda, dona al film un tono sottilmente favolistico. Tanta abbondanza di mirabolanti effetti CGI rende arduo giudicare la performance di Brad Pitt, anche se si potrebbe accusarlo di eccessiva reticenza interpretativa, Cate Blanchett e Tilda Swinton sono superbe come al solito, mentre è una vera rivelazione la materna e solare Queenie di Taraji P. Henson.
Purtroppo la convenzionalità inficia gravemente la riuscita del film, e Fincher non ottiene un risultato paragonabile ai suoi esiti più felici: "Il curioso caso di David Fincher", appunto.
15/01/2009