L'ispirazione di un artista risponde a fattori, a volte imponderabili, altre rintracciabili nel flusso dei ricordi che appartengono al privato. E non c'è dubbio che nel caso di Pupi Avati, la memoria costituisca una risorsa di un'efficacia pari solo alla prolificità con cui l'artista, anno dopo anno, si ripresenta al cospetto dei suoi spettatori. Uno strumento su cui il regista ha costruito il suo successo e, che nelle versioni più riuscite, si rifà a situazioni spazio temporali riconducibili all'alveo familiare, di volta in volta rivisitato tramite storie prelevate dalla tradizione orale, oppure scaturite da rimembranze personali. A queste ultime appartengono quelle de "Il cuore grande delle ragazze", film dedicato al nonno Carlino, ripreso nella fresca gioventù dell'esordiente Luca Cremonini, ed al parentado, una famiglia di mezzadri impegnati a sbarcare il lunario in un'epoca di grandi privazioni, e per questo intenzionati a maritarlo con una delle figlie del padrone. Un matrimonio che s'ha da fare, se non fosse che l'irresistibile dongiovanni, capace di conquistare i favori del gentil sesso, con la sua faccia tontolona e l'alito al profumo di ciclamino, s'innamora di Francesca, la sorellastra delle future spose, giunta da Roma per una visita di cortesia. Un colpo di fulmine, vanamente contrastato dai genitori di lei, convolato a nozze in maniera tanto veloce, quanto rocambolesca. Ma il destino è in agguato, e la luna di miele riserverà più di un problema.
Avati fa del matrimonio il punto di convergenza della storia. Essenziale tanto nella prima parte, quando i preparativi della cerimonia permettono al regista di sviscerare la solita galleria di personaggi e situazioni, ingenue e stravaganti, quanto nella seconda, in cui l'amore tradito deve fare i conti con i vincoli di un'istituzione allora inviolabile, e per questo drammaturgicamente influente nella costruzione del pathos che sottende alle conseguenze di quell'azione. Il regista mette in scena una storia di ragazzi e di ragazze, di Carlino e Francesca (Micaela Ramazzotti), ma anche di coloro che li hanno preceduti - di Adolfo, il padre del giovane, come lui donnaiolo impenitente, e dello zio, sposato con un'ex prostituta - testimoni, con la presenza dei loro ricordi, debitamente raccolti dal regista emiliano in flash rapidissimi, il tempo di un album fotografico - quello in bianco e nero del giovane Adolfo - o di un colpo di pedale - dello zio, sempre in sella alla sua bicicletta mentre la voce narrante ne ripercorre le vicissitudini- dell'alternarsi del ciclo vitale e della convivenza tra le diverse stagioni dell'esistenza. Un'umanità a cui Avati si rivolge con un senso d'appartenenza che si trasforma in una lente deformante, capace di proiettare le persone e la storia (siamo nella metà degli anni 30) in una dimensione sentimentale e romantica, in cui anche un fenomeno epocale e drammatico come il fascismo, è costretto a fare un passo indietro - nel film le camicie nere sono lontane dallo loro iconografia, ed entrano in gioco come rivali in amore del nostro protagonista - per lasciare spazio alla peculiarità dei caratteri, ed al divertimento, e qui si ride molto, che ne deriva. Se la poetica, supportata dalla valenza bucolica di un paesaggio ancora una volta luogo dell'anima in cui rifugiarsi, risulta efficace, non si può dire lo stesso della struttura narrativa, resa debole dalla preponderanza degli elementi di contorno, rispetto a quelli connessi con il filone principale della storia. Infatti, se Carlino e soprattutto Francesca, colei che seguendo il significato del titolo raccoglie il testimone di una categoria in grado di saper comprendere e sopportare, dovrebbero essere i cardini della vicenda, quelli attorno ai quali il racconto si svolge e si giustifica, nella sostanza accade esattamente il contrario, con i personaggi secondari a contendersi la ribalta, e quelli principali relegati in seconda fila. Uno squilibrio che rende il film discontinuo, quasi schizofrenico nel perseguire la costruzione di un microcosmo, incapace, per ovvie ragioni, di soddisfare le premesse di partenza. Ai due innamorati, costretti a sgomitare per dare senso alle loro presenza, restano solo le briciole, e l'impressione di non aver sviscerato fino in fondo le ragioni dei loro comportamenti.
Girato con la solita scioltezza, e pur nella sua imperfezione, "Il cuore grande delle ragazze" conferma la personalità del regista e del suo cinema, capace di sopravvivere alle mode con un umanesimo che non ha bisogno di slogan o di proclami. In più, la capacità di valorizzare gli attori, ricavandone il meglio. Bisognerebbe citarli tutti, da Gianni Cavina ad Andrea Roncato, a Cesare Cremonini, saggiamente dosato e funzionale al ruolo, ed altri ancora, ma noi ci vogliamo soffermare su Micaela Ramazzotti, davvero brava nel rendere le sfumature di un personaggio apparentemente risolto nella semplicità dei modi e del linguaggio, ed invece capace di tirare fuori il coraggio dei personaggi destinati a rimanere.
13/11/2011