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recensione di Matteo Zucchi
6.0/10

Nei quasi due lustri che sono passati da quando un film del fu avanguardista del nouveau horror è sbarcato nelle sale italiane il cinema di Alexandre Aja, come quello di tanti registi europei di genere sbarcati Oltreoceano negli ultimi decenni, è andato incontro a notevoli mutazioni, che hanno reso la sua già contestabile identità ancor più rarefatta. Non che “Horns” e “The 9th Life of Louis Drax” abbiano comunque conseguito grandi risultati al box office internazionale, né ricondotto la poetica del regista francese alle vette (pur anch’esse discutibili) dei primi anni 2000. “Crawl” è quindi sotto ogni punto di vista un ritorno alla comfort zone dello scanzonato monster movie già trattato con l’ironico “Piranha 3D”, il più grande successo commerciale di Aja e probabilmente anche la pellicola più esemplificativa del suo cinema, perlomeno per quanto riguarda la fase americana.

La ludicità che animava il gioco al massacro del film del 2010 è presente difatti anche nella pellicola qui in analisi, seppur differenziata dalla maggiore consistenza dei personaggi coinvolti (perlomeno del duo protagonista, dato il minutaggio a dir poco irrisorio concesso a ogni altro ruolo), i cui corpi vengono sì sfregiati con un realismo e una crudeltà che nel cinema USA mainstream sono piuttosto rari ma senza dissolversi negli eccellenti effetti visivi non digitali delle carni a brandelli di “Piranha 3D”. Non si fraintenda questa cura nell’abbozzo dei protagonisti come una resa alla ricerca della drammaticità a ogni costo che il cinema hollywoodiano persegue ormai anche nel cinema di genere più trucido, in quanto va intesa come la consapevole e ben ironica caratterizzazione dei personaggi per esplicare capacità (il passato e il presente da nuotatrice della protagonista, così come il padre homo faber stereotipicamente nord-americano) e tratti fisici senza dover ricorrere a verbose e irrealistiche sottolineature nel corso della narrazione.

Distante come sempre da una rappresentazione realistica come convenzionalmente intesa la produzione del francese non si è pur mai sottratta alla rappresentazione della disgrazia del corpo, le cui mutazioni e sofferenze si fanno sempre significanti e pertanto vanno rappresentate nella loro pienezza. La devastazione della carne di “Alta tensione” e l’enfasi sulle fattezze mutanti de “Le colline hanno gli occhi” erano già allora esempi di una concezione dello splatter peculiare, distante dall’ipersaturo gore dello slasher classico e più prossima al body horror (ancor più in realtà al miliare “Non aprite quella porta”), pur senza molte delle sue implicazioni. Così Kaya Scodelario può lordarsi, scivolare sugli escrementi, venire morsa e schiantata sulle pareti e così via e ancor peggio capita a Barry Pepper, mentre ai comprimari/carne da macello (ad eccezione della sorella, l’unica fisicamente del tutto assente, non se ne salva uno) vengono riservate solo esplosioni ematiche fatte con una mediocre CGI. Questa prospettiva non è intende certo far annoverare l’horror di Aja nell’alveo del realismo, quanto rintracciare alcune delle componenti fondamentali del cinema del regista in una pellicola che si sarebbe tentati di definire senza personalità.

Fin dall’esordio “Furia” del 1999 e con maggior nettezza da “Alta tensione” il suo cinema è consistito in una riconfigurazione dei cliché dell’horror mainstream entro nuovi orizzonti percettivi, gli stessi che da lì a pochi anni gli autori del nouveau horror stricto sensu avrebbero ampiamente esplorato, arrivando agli apici teorici di “Martyrs” e drammatici di “Vinyan”. Dopo un’opera a modo suo consuntiva come “Piranha 3D” il cinema del francese è visibilmente entrato in crisi, entrando in territori mai esplorati come il dramma fantastico e fanta(para)scientifico delle due pellicole successive, cui la comfort zone cui si accennava in esergo non può che portare giovamento, concretizzandosi nel suo primo film riuscito, a modo suo, dal 2010. Simile e diverso da “Paradise Beach”, altro survivor movie della schiatta de “Lo squalo” realizzato da un figlio rinnegato della cinematografia europea, “Crawl” si dimostra una considerevole prova delle infinite potenzialità del montaggio alternato, pur in un contesto di estrema unità di tempo e luogo, concedendosi solo qualche fugace flashback dai colori sfumati, mentre i rettili predatori si rivelano pure funzioni narrative e spettacolari, permettendo ad Aja e alla sceneggiatura dei fratelli Rasmussen di realizzare una sequela di scontri e fughe sempre più cruda e iperbolica. Data l’insistenza sul concetto di predatore nella pellicola si potrebbe forse ragionare sul tema della naturalizzazione delle matrici del Male nel cinema del cineasta parigino (si pensi alla banalità della follia in “Alta tensione” o alle origini preistoriche dei piranha dell’omonimo film) ma più probabilmente questo è solo l’ennesima citazione, un omaggio al capostipite del genere diretto da Steven Spielberg più di 40 anni orsono.


17/08/2019

Cast e credits

cast:
Kaya Scodelario, Barry Pepper, Morfydd Clark, Ross Anderson


regia:
Alexandre Aja


titolo originale:
Crawl


distribuzione:
20th Century Fox


durata:
87'


produzione:
Paramount Pictures, Ghost House Pictures


sceneggiatura:
Michael e Shawn Rasmussen


fotografia:
Maxime Alexandre


scenografie:
Alan Gilmore


montaggio:
Elliot Greenberg


costumi:
Momirka Bailovic


musiche:
Max Aruj, Steffen Thum


Trama
Mentre un uragano di categoria 5 sta per abbattersi sulle coste della Florida la nuotatrice Haley si mette alla ricerca del padre, irraggiungibile e probabilmente tornato nella vecchia casa di famiglia. Lo trova svenuto e ferito nella cantina, assediato da due enormi alligatori, avanguardia dell'orda di rettili che si appresta a scatenarsi in seguito all'inondazione.
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