In "Cosimo e Nicole" lo spazio cinematografico si fa da subito evidenza metaforica, esemplificando lo sfasamento percettivo di cui si sostanzia l'opera nel nero totale dei titoli di testa, punteggiato di scarne parole, un non-luogo che, nella sospensione dell'attimo, denuncia la sua instabilità.
Sono i dialoghi ad imporsi prima di tutto, le parole a descrivere i contorni di un intreccio fuggevole, che la macchina da presa può solo inseguire, incespicando con i suoi protagonisti, tremando nelle soggettive delle scene di massa, veicolando una costante impressione di precarietà.
Questione di incipit. Se la messa in scena dell'
ultimo Haneke deflagra con la violenza incipiente di un botto inatteso e si applica, poi, con coerenza allo sfondamento progressivo di pareti reali e non (la platea del concerto che si ribalta specularmente nello spazio del pubblico), demolendo gli ultimi baluardi di un impossibile straniamento per precipitare lo spettatore nelle viscere di un dramma senza uscita, l'opera seconda di Amato accetta quei limiti, li asseconda timidamente, indugia, barcolla incerta - con i suoi protagonisti - sul filo degli eventi, svolgendo le fila di un racconto sconnesso, che solo le parole possono ricostruire.
Siamo agli antipodi, anche tematici: l'amour di Haneke è la consapevolezza del tragico nella vita, la crudeltà tenera e appassionata di un sentimento colmo di mostruose responsabilità; la passione di Amato, invece, vibra dell'incanto giovanile, è un idillio travolgente ed esclusivo, scevro di incombenze e di oneri, che vive negli eccessi tipici dei capricci adolescenziali.
E' l'anno del G8 di Genova. Durante una manifestazione la giovane francese Nicole (una fragile e sensuale Clara Ponsot, vera rivelazione del film), ferita dalla generica manganellata di un poliziotto, viene soccorsa e portata in salvo da Cosimo. E' l'inizio di un'intensa e travolgente
liaison, che porterà i due giovani, dopo un breve periodo di vita comune in Francia, a ritrovare il nodo, l'origine del loro rapporto nel capoluogo ligure.
Nelle figure di questi protagonisti vagheggianti e passionali Amato scorge il nervo scoperto di una generazione ormai abituata a convivere con la precarietà in ogni anfratto della vita sociale, dal lavoro agli affetti. Cosimo e Nicole sono incapaci di progetti a lungo termine, (soprav)vivono alla giornata, sublimando nell'intensità apparente dei reciproci sentimenti il vuoto di opportunità che li circonda, fino a quando un grave incidente li costringerà a mettere a nudo le proprie coscienze e a rivelare l'autentica natura di una relazione egoistica, costruita sull'esclusione degli altri.
Deciso ad infrangere il tradizionalismo puberale di un cinema che nel corso degli anni ha saputo mostrarsi sempre più ingenuo e di matrice fatalmente televisiva, Amato allontana gli spettri moccia-mucciniani del conformismo melenso, dell'indolenza stilistica, del grigiore caratteriale e cerca di restituire un barlume di dignità al genere giovanilistico, lavorando di sottrazione e ponendo - non a caso - a suggello dell'impresa il volto di Riccardo Scamarcio, che, protagonista di "Tre metri sopra il cielo" e "Ho voglia di te" tanta importanza ha avuto nella fondazione di quel mediocre modello, ora in (auspicato) disfacimento. Nell'austerità grezza del viso, spesso fissato in vibranti primi piani da una telecamera che sembra volersi incollare al corpo degli attori, è la storia stessa del suo cinema e dei suoi personaggi a sfilare, le impronte di una maturazione risolta nella decisiva convergenza tra attore e personaggio. Sorvolando sulle (discutibili) doti recitative, è difficile immaginare un carattere cucitogli addosso con maggior finezza, ribelle, confuso e tormentato quanto basta per incantare platee di devote adolescenti, ma, nel contempo, ammantato di un'insolita sincerità interpretativa, che si lascerà apprezzare anche dalle altrettanto fedeli schiere di detrattori.
Intimo ma dispersivo, il film di Amato ha convinto la giuria del Festival di Roma, che lo ha voluto omaggiare con il premio della sezione "Prospettive Italia", riconoscimento che testimonia sin dal nome l'evidenza di un cinema disposto a svincolarsi dagli schematismi di un passato neanche tanto lontano, pronto a rischiare e disposto ad avanzare lungo strade poco battute, sperimentando una mescolanza di generi e toni inusuale per un prodotto nostrano. E se convincono la messa in scena ellittica dell'improvvisa passione giovanile - con i frequenti tagli di montaggio che rompono la continuità temporale e frammentano le inquadrature in una moltitudine di sussulti - e gli accenti fiabeschi di un primo incontro straniante, si avverte troppo, in certi punti, l'insistenza di uno stile artefatto, spesso votato alla pura maniera (come testimoniano le ritmiche zoomate sul viso della Ponsot durante l'inchiesta).
Al termine della visione rimane il dubbio di aver assistito ad un melting-pot di idee cinematografiche dalle più diverse tradizioni, con un occhio (e anche più) di riguardo alle produzioni francesi d'autore, specie i primi Dardenne. Non aiuta ad eludere questa forte impressione di
dejà-vu il ricorso ad alcuni famigerati
topoi della drammaturgia melensa, dal folclore solidale della comunità africana, alla baracca isolata in riva al mare, che trasferisce a livello fisico (vetri rotti, pareti scheggiate) il progressivo degrado dell'amore tra i due protagonisti, sino ad incendiarsi nel sofferto momento dell'abbandono.
Difficile pensare che "Cosimo e Nicole" possa aprire nuove "prospettive", come suggerito dai giurati romani, ma potrebbe essere l'indizio di un cinema desideroso di tornare a confrontarsi con le realtà sociali al di fuori degli schematismi di genere. E già questo non sarebbe poco.
02/12/2012