È perfetto il tono che Marielle Heller adotta per raccontare la storia della biografa falsaria Lee Israel. "Copia originale" è un biopic controllato e ragionato, che rifiuta le scorciatoie sentimentali e l'inflessione sopra le righe del patetismo forzato. È un gesto cinematografico attento alla propria grammatica, che a prima vista può risultare poco ispirato e senza un’idea di connotazione registica e invece è firmato da una visione capace di comprendere la natura anti climatica della realtà e la suggestione della storia raccontata, la misura con cui avvicinare la psicologia di un’artista e la distanza da cui riprendere il fatto realmente accaduto. La storia vera di una serie di lettere contraffatte ad arte è così un racconto a forma di ossimoro che coinvolge grazie a un’irriducibile tensione interna, a quel fascino distorto proprio dei criminali più incapaci e degli spostati più convinti, a quella forma di empatia che si genera per chi vive appeso al margine dei libri di storia.
La fortuna e la sventura di Israel e del suo amico Jack Hock (interpretati da Melissa McCarthy e Richard E. Grant) nella New York spiegazzata degli anni 90 non sono però raccontate come una nota a piè pagina letteraria dilatata nell’immagine dello schermo per confermare solo le capacità acrobatiche della comprensione emotiva – in grado di aggirare la fattualità irriducibile della veridicità giudiziaria del dramma – o la sua capacità di creare sfumature ambigue – capaci di disallineare le certezze etiche. L’interesse del film risiede soprattutto nel dare voce a una paroliera che ha ingannato il circuito del collezionismo imitando la voce di altri e altre, posizionando i giudizi morali nel fuori campo, concentrandosi sull’azione e sulle sue motivazioni personali nella cornice del contesto, cercando di fare emergere con chiarezza il disegno della personalità introversa della scrittrice e della sua condizione sociale di emarginazione. Il pregio della regia di Heller (in primis attrice di teatro) è quello di trasmettere veridicità riguardo alla questione psicologica, grazie alla direzione degli attori e all’intuizione delle loro capacità.
Il film è dei suoi due interpreti principali, dei loro occhi consumati, dei loro corpi agli opposti e in qualche modo identici. I due recitano in modo diverso ma in entrambi i casi è evidente la raffinatezza attoriale con cui sfumano il linguaggio della condotta criminale in un codice comportamentale tragicomico: McCarthy traduce la mancanza di etica del suo personaggio in una continua lotta furtiva con l’ambiente e le persone, restituendo l’insistente asocialità e la commovente solitudine del profilo caratteriale di un'outsider brillante, misantropa e bisognosa d’aiuto; Grant usa il proprio linguaggio del corpo per intercettare la condizione sociale di un individuo schiacciato e imprigionato nella propria condizione livida ed esausta. La grandezza della prova dei due attori consta nel guardare l’arco drammatico dei propri personaggi da una prospettiva che scarta il vittimismo rassegnato e abbraccia il realismo che non conosce soluzioni catartiche o salvifiche, ma solo una coerenza che fa i conti con la tristezza e la sconfitta.
Pedinando questi due refusi viventi la regista si appassiona al loro linguaggio metropolitano, alla loro esemplificativa esistenza informale e infine salta su un piano più ampio: grazie alla descrizione puntuale delle azioni di Israel e Hock il film compie un giro che parte dall’inquadratura psicologica di una donna sull’orlo del bicchiere e termina nella fotografia politica dell’ipocrisia della società letteraria. Il risultato è una parentesi che, unendo in continuità micro e macro, riesce a raccontare, nei codici del genere del biopic, alcuni dettagli salienti della società occidentale: l’assenza di differenze tra i sedicenti giusti e i dichiarati sbagliati, l’assoluta corrispondenza tra le colpe di una società moralmente ambigua e i reati di una persona costretta da se stessa alla marginalità e all’occlusione, e infine la vittoria del relativismo, di quel cortocircuito che solleva il falsario in artista e assottiglia le differenze tra giusto e sbagliato. Suggerendo che se in fondo, come ha detto Paul Schrader, “tutta l’arte è un crimine” allora forse si tratta sempre e solo di una questione di prospettive.
cast:
Melissa McCarthy, Richard E. Grant, Dolly Wells, Ben Falcone
regia:
Marielle Heller
titolo originale:
Can You Ever Forgive Me?
distribuzione:
Fox Searchlight Pictures
durata:
107'
produzione:
Archer Gray Productions
sceneggiatura:
Nicole Holofcener, Jeff Whitty
fotografia:
Brandon Trost
montaggio:
Anne McCabe
musiche:
Nate Heller