È possibile affermare senza eccessiva premura che il divismo sia un fenomeno ancora oggi in auge e che conseguentemente il volto della star rappresenti spesso l'esca più prelibata con cui una parte consistente del pubblico viene attirata nella trappola della mediocrità quando non addirittura dell'indecenza.
È dunque altrettanto normale il rimanere attratti e incuriositi da una pellicola che già fa sfoggio nella locandina dei volti canuti e invecchiati di due venerandi attori come Al Pacino e Anthony Hopkins, entrambi lodati e premiati in passato per capolavori quali: "Profumo di donna" e "Il silenzio degli innocenti" (film che hanno valso ai due veterani della Settima Arte il meritato Oscar).
Ci si rende però presto conto, calato il buio in sala, che ancora una volta tale astuzia altro non è se non un escamotage che nasconde in realtà una fatale carenza di struttura; si capisce in fretta che il profumato e atteso boccone è soltanto l'invito a poggiare il piede su un'aguzza tagliola.
Questo è infatti "Conspiracy - La cospirazione", esordio alla regia del produttore americano di origini giapponesi Shintaro Shimosawa: un cavallo di Troia che punta sui volti di attori famosi per permettere a un prodotto a dir poco infecondo di entrare all'interno delle mura della distribuzione cinematografica.
Ma il castello di carte fa presto a crollare e a mostrare il vero volto dell'opera: non quello del divo, ma quello di una sceneggiatura mal scritta e zeppa di buchi, di una regia altezzosa che ricercando l'artisticità cade assai presto nell'insensato e di una recitazione (soprattutto per quanto riguarda il protagonista Josh Duhamel) irritante e inconsistente.
Il giovane e ambizioso avvocato Ben si ritrova coinvolto in una causa intentata contro il potente capo di una casa farmaceutica: Arthur Denning, attuale compagno della sua ex fidanzata. A spalleggiarlo nella sua lotta giuridica sarà Charles Abrams: anche lui avvocato e nemico di lunga data dell'imprenditore Denning.
Il problema principale della pellicola sta proprio nella sceneggiatura di Mason e Boyes, che si dispiega in un dedalo di situazioni incomprensibili, improvvise e al limite dell'assurdo, tanto da generare un nauseante e crescente spaesamento nello spettatore, il quale necessita di una grande abilità per tenere assieme le redini del racconto e di una grande saldezza d'animo per non cedere all'impulso di abbandonare la sala prima del termine della proiezione.
Ma se la fatica di seguire la narrazione è già di per sé stomachevole, il colpo di grazia è inferto poi da una risoluzione delle vicende più che mai scontata, che rende ancora più futile e fastidiosa l'intrigata ragnatela tessuta in precedenza.
Per non parlare del finale superfluo ed eccessivo, che sembra aggiunto appositamente per colmare delle lacune precedentemente aperte dalla sceneggiatura, ma che male si inserisce nella tessitura complessiva delle vicende, rimanendo un evento a se stante, inutile ai fini della narrazione e insufficientemente approfondito e argomentato. O forse rappresenta il tentativo di creare un doppio colpo di scena, che tuttavia non funziona perché non si incastra a dovere nel mosaico di eventi fino a lì intassellato: ovvero non consiste affatto in una rilettura dei fatti da una prospettiva diversa e insospettata, ma semplicemente si aggiunge allo status quo come un elemento sovrabbondante inserito a scopo chiarificatore.
E se la regia ricerca in più punti soluzioni artistiche che possano evitare al film di cadere nella piattezza stilistica (si pensi alla scena nella chiesa, o al primo piano finale o alle frequenti voci-off) esse però non sottolineano alcuna dichiarazione di poetica, né evidenziano tematiche o concetti interni alla pellicola, ma nemmeno ricercano mai l'esaltazione edonista e la sperimentazione estetica. La sporadicità con cui tali sfoggi registici vengono offerti allo spettatore (sporadicità che impedisce di pensare a un qualsivoglia ragionamento che stia dietro di esse) ha piuttosto l'effetto negativo di interromperne l'immedesimazione, richiamando l'attenzione su movimenti di macchina o inquadrature o altri pavoneggiamenti formali, incapaci però di comunicare alcunché da un punto di vista contenutistico.
Certo la recitazione di Pacino e di Hopkins è buona, seppur limitata a poche scene, ma ciò non è assolutamente sufficiente per salvare il risultato finale di un thriller che non fa ciò che dovrebbe fare: ovvero che non intrattiene, lasciando oltretutto il sapore amaro di una storia non ben chiarita e dalla risoluzione insoddisfacente.
cast:
Al Pacino, Anthony Hopkins, Josh Duhamel, Alice Eve, Malin Akerman, Julia Stiles, Glen Powell, Marcus Lyle Brown, Chris Marquette
regia:
Shintaro Shimosawa
titolo originale:
Misconduct
distribuzione:
Lucky Red
durata:
106'
produzione:
Mike and Marty Productions
sceneggiatura:
Adam Mason, Simon Boyes
fotografia:
Michael Fimognari
montaggio:
Gregers F. Dohn, Henrik Källberg
musiche:
Federico Jusid