Non dubitiamo che Thomas Vinterberg condivida, pur probabilmente ignorandolo, il vecchio adagio di Benedetto Croce, secondo cui l'arte non soffre limiti né di forma né di contenuto. Si può, dunque, informare dello stile più sciolto il più faticoso dei motivi senza che perciò l'opera patisca un difetto in se stessa. L'unico limite è, semmai, la nostra pazienza di spettatori, ma Vinterberg, da buon discolo nato agli albori della contestazione, non manca di violare anche quest'aurea eccezione. Lo fa, in effetti, sin dagli esordi, quando con il controverso "Festen", puntuale scandalo sulla Croisette, aizzò le penne dei critici, offesi da un cinema tanto impudente quanto effimero, e continua a farlo ancora oggi, sebbene la sua opera abbia, ormai, rinunciato ai pretenziosi voti del Dogma 95. Di questa testardaggine, che persevera corriva nel provocare lo spettatore con finte audacie e misurate indecenze, afferriamo i segni anche nel più recente parto dell'autore danese.
Allo scadere dei titoli di testa facciamo la conoscenza dei coniugi Erik (Ulrich Thomsen) e Anna (Trine Dyrholm), lui professore di architettura, lei giornalista televisiva; hanno una figlia quattordicenne, Freja, timida, ma non troppo. Devono decidere cosa fare della casa paterna lasciata in eredità a Erik. Lui, pratico e indifferente alle aspirazioni dei genitori - in poche battute intuiamo un retroterra di relazioni travagliate - vorrebbe vendere il villino, ma, poiché siamo negli anni Settanta, la moglie ha gioco facile nel proporgli di formare una comune, così da alleggerire il carico delle spese. Chiamano, allora, a raccolta un gruppo di amici, sui quali l'esile scrittura di Vinterberg e del sodale Tobias Lindholm vorrebbe ironizzare in punta di penna, esibendo un divertito - e malinconico - catalogo di contegni post-sessantottini, ma che si riduce, invece, per pigrizia di sguardo, a un fascicoletto for dummies di cultura hippie, sul quale ci piacerebbe immaginare l'asciutto lavoro della penna di Michel Houellebecq.
L'equilibrio della comune è fragile sin dal principio e, se Anna si muove a suo agio in quell'ordito di relazioni, il borghese Erik vi si inoltra a fatica, non senza un legittimo sospetto e, forse, rimpiangendo l'intimità di un tempo. Trova, in facoltà, il modo di svagarsi, corteggiando un'allieva, di cui ben presto si innamora.
La scena in cui la figlia li scopre nella stessa stanza è l'emblema delle potenzialità irrisolte del cinema di Vinterberg, il suo livello di guardia. Prima ancora che il padre avanzi una scusa, il telefono squilla. Freja esita, poi si alza e va a rispondere: all'altro capo del filo è la madre, che, in gita fuori città con gli altri inquilini, chiede dove sia Erik. In un istante di silenzio proviamo, senza riuscirvi, a intercettare il flusso di pensieri negli occhi della ragazza, poi la menzogna: deve riattaccare, le sembra di aver udito il padre rientrare in casa in quel momento. La suspense che percorre la sequenza, in sé tutt'altro che rara e, anzi, piuttosto manualistica, è qui rinvigorita da una sgradevolezza che ci agguanta lo stomaco e ci lascia una certa nausea, poi acuita dalla reazione del padre, che dichiara il suo sbaglio dinanzi alla figlia con la sgradevole fierezza di chi si compiace della propria onestà.
All'opposto, la successiva scena della confessione alla moglie esibisce tutti i limiti del consueto cinema della crudeltà praticato dal danese, che si accanisce con malcelato piacere sulle miserie dei suoi disprezzati personaggi. È notte, Erik e Anna sono a letto. Lui si alza a sedere e le rivela con secca naturalezza di avere un'amante; lei ne è colpita, ma cerca subito di affrontare il lato pratico della questione, mentre il marito le impone l'umiliazione dei dettagli del suo amaro racconto.
Il gioco di Vinterberg è, in fondo, tutto qui: qualcosa di simile a certi eccessi del cinema di Michael Haneke nella reiterata violenza dei rapporti umani, ma senza il distacco lucido e lo sguardo analitico dell'austriaco.
Ancora una volta il terreno di scontro privilegiato è la famiglia e il nodo da sviscerare quello delle sue intime storture. Lo spazio della villetta, mai percorso, se non in incipit, dall'occhio della macchina da presa, si fa perimetro indifferente di una bolgia per tre (marito, moglie, figlia), dove il castigo dei dannati è nel reciproco svelarsi di bassezze e volgarità. E che il cuore del film sia nuovamente scosso dall'impulso insopprimibile di épater le burgeois lo svelano quei momenti, in cui la mano del regista fa sentire la sua proverbiale pesantezza: la confessione di Anna, che alla presenza dell'intera comunità - e di sua figlia - racconta gli amplessi sognati con un marito ormai assente, lo sguardo della madre che sorveglia dallo schermo di un televisore i rapporti della figlia con un insipido e volgare ragazzotto, infine una brusca dipartita sulle note di Elton John.
Difficile davvero amare un film tanto artificiale, di cui si intravedono, ad ogni istante, gli schemi portanti, in cui la naturalezza dell'intreccio è umiliata dal bisogno di provare una tesi e il cinismo dell'autore fa di ogni svolta del racconto un pretesto per chiudere le scene in sgradevolezza.
cast:
Trine Dyrholm, Ulrich Thomsen, Helene Reingaard Neumann, Martha SophieWallstrom Hansen
regia:
Thomas Vinterberg
titolo originale:
Kollektivet
distribuzione:
Bim
durata:
111'
produzione:
Zentropa Entertainments, Danmarks Radio, Det Danske Filminstitut
sceneggiatura:
Thomas Vinterberg, Tobias Lindholm
fotografia:
Jesper Tøffner
montaggio:
Janus Billeskov Jansen
musiche:
Fons Merkies