Irrompe al festival di Locarno la realtà nuda e cruda, quella che si legge tutti i giorni nelle note di cronaca dei giornali e dei comunicati stampa e che riempie le statistiche delle inchieste a proposito del tempo presente. E, infatti, il film si premunisce, lungo i titoli di coda, di informare il pubblico del fatto che quello che vediamo non solo è accaduto ma fa parte di una quotidianità che si è ripetuta per almeno altre 30 volte nei soli Stati Uniti. In tal modo, un regista dall'arte affabulatoria come Craig Zobel - capace di tenerti incollato per 90 minuti ad una storia inverosimile e per di più ambientata quasi esclusivamente all'interno del fast food - sembra quasi voler smentire la sensazione di una certa esagerazione che il cinema, per esigenze di intrattenimento, potrebbe far trapelare nel resoconto di fatti realmente accaduti.
Parliamo di quello che accade a Barbara, l'indaffaratissima manager di un fast food di una qualsiasi cittadina americana e alla sua impiegata, accusata di aver sottratto dei soldi a una cliente. Fin qui nulla di eclatante, se non fosse che l'accusa è annunciata per via telefonica da un sedicente agente di polizia che da quel momento, e con l'accondiscendenza delle parti in causa, dà vita a una procedura alquanto anomala. Non solo Barbara dovrà trattenere in fermo l'accusata in attesa dell'arrivo della polizia ma sarà chiamata insieme ad altri impiegati a procedere con una serie di accertamenti e perquisizioni che sfoceranno in atti di violenza psicologica e anche corporale.
Filmato senza nessuna concessione
voyeuristica nè sfoggio di stile, "Compliance" più che delineare i personaggi nella loro interezza psicologica è efficace nel farli interagire, facendo scaturire la tensione non solo dal meccanismo perverso che regala la voce dell'agente, per almeno metà del film invisibile agli spettatori ed agli stessi personaggi, un potere affabulatorio e di persuasione che non concede punti deboli ai suoi interlocutori, ma anche dal contrasto tra le differenze caratteriali che scaturiscono da una situazione forzatamente collettiva. La vicenda, che Zobel mette in scena con un pragmatismo che sullo schermo non lascia spazio a voli metaforici, offre comunque molti spunti di riflessione a cominciare da quello evidente di rimandare ad una società dominata dalla paura e dall'ignoranza, incapace di accorgersi di quello che le succede accanto - il montaggio associa continuamente il dramma che si consuma nell'ufficio della manager alla spensieratezza dei consumatori di hamburger e patatine, concentrati nella soddisfazione dei bisogni del ventre - e sempre più abituata a relazioni di tipo virtuale, come testimonia in maniera ossessiva la corrispondenza tra la voce che detta ordini al telefono e l'atteggiamento dei personaggi che agiscono come se il loro interlocutore si trovasse di fronte a loro. E quando la manager del fast food, durante l'ultima sequenza della pellicola, afferma che la ragazza sottoposta a tali vessazioni in fondo ha accettato volontariamente di farlo, senza la dovuta opposizione, è naturale pensare che forse neanche la visione del male possa guarire gli esseri umani dalla loro condanna. Anche in questo caso auguriamo al pubblico italiano una possibile visione.
05/08/2012