Giunto al suo diciannovesimo lungometraggio, Gabriele Salvatores torna a confrontarsi con un testo teatrale molto importante, "Commedianti", un dramma degli anni 70 che consegnò all'attenzione internazionale il genio di Trevor Griffiths che, fino al 1972, prima di scoprire il suo talento per la drammaturgia, faceva l'autore alla Bbc. Si tratta appunto di un ritorno, quello di Salvatores, perché il regista nato a Napoli e cresciuto a Milano aveva già affrontato il medesimo soggetto a inizio carriera; il suo secondo film, infatti, "Kamikazen - Ultima notte a Milano" (1987), era già un adattamento per il grande schermo dell'opera di Griffiths. In questi 34 anni è cambiato tutto, ovviamente, compresa l'arte cinematografica di Salvatores. L'istinto anarcoide degli albori si è placato fino al punto di lasciare completamente spazio a una visione della contemporaneità filtrata attraverso una più confortevole osservazione borghese. Il progressivo mutamento del suo cinema ha trovato due scarti consecutivi che lo hanno segnato in modo indelebile, prima l'incontro con la penna di Niccolò Ammaniti e poi la svolta ulteriore verso le possibilità dell'industria cinematografica italiana, che ha aumentato le capacità produttive dell'opera di Salvatores, ma forse l'ha al tempo stesso privata di una sua peculiarità nella contemplazione del mondo circostante.
E se "Kamikazen" era un adattamento libero e irrispettoso del testo originario, "Comedians" non ha i connotati del remake, proprio perché è una rielaborazione sostanzialmente nuova del soggetto teatrale, più fedele all'opera e per questo indubbiamente meno originale. La storia non cambia: gruppo di comici eterogeneo pronto ad esibirsi su un palco sotto gli occhi di un affermato personaggio televisivo giunto fino a questa periferia dello spettacolo italiano per trovare nuove promesse da inserire nel suo show. Si chiama Bernardo Celli e non ha certo caratterizzato i suoi lavori per raffinatezza e arguzia, lavorando invece di sensazioni immediate e puntando, per avere successo, su una comicità di grana grossa. Celli è l'esatto contrario di Eddie Barni, il titolare del corso che questi comici sconosciuti hanno seguito, ex spalla proprio di Celli e ora caduto nel dimenticatoio a causa di questo suo approccio al riso meno convenzionale e diretto. Il lavoro compiuto da Salvatores sul testo scritto rasenta l'esperimento teorico: le uniche variazioni sono quelle battute che, estrapolate da un contesto londinese e tradotte in un'altra lingua, semplicemente non avrebbero alcun senso. Per il resto, la sceneggiatura è una riproposizione in copia conforme dell'opera di Griffiths. Questo rinunciare alla missione dell'adattamento, nobile e difficile arte che spetta al bravo sceneggiatore allorché si trova di fronte un soggetto non originale, trasforma "Comedians" in un film tutto di messa in scena, di montaggio, di scelte registiche nella trasposizione visiva per una versione cinematografica.
Il film, allora, si trasforma in un esperimento di teatro filmato, girato tutto in interni e tenuto in equilibrio dalla capacità di Salvatores di mantenere il ritmo degli scambi serrato. Al resto pensano alcuni interpreti ispirati e, soprattutto, i due istrioni chiamati a monopolizzare la scena. Da una parte il Barni interpretato da Natalino Balasso, bravissimo in questa sua operazione di mimetizzazione totale, e dall'altra troviamo il Celli di Christian De Sica, forse la sorpresa più inattesa della pellicola. Se con Pupi Avati il re dei cinepanettoni aveva risentito di una scrittura superficiale del suo personaggio e una costrizione all'interno di un ruolo troppo lontano dal suo habitat naturale, Salvatores lo conduce invece a vestire i panni di un suo credibile alter ego. Anzi, l'aspetto metalinguistico del Celli che ragiona come un autore di film trash e che vuole bandire la comicità troppo cerebrale dai suoi spettacoli è uno degli spunti più interessanti di "Comedians".
Per il resto, però, ci troviamo di fronte a una pellicola che non riesce compiutamente a motivare, attraverso le immagini che scorrono sullo schermo, la scelta di far diventare un lungometraggio la pièce di Griffiths. La mente torna a un grande film dei primi anni 90, "Americani", diretto da James Foley e tratto da un'opera di David Mamet. Un esempio di come, anche con la rinuncia ai cambi di scenografia, un film che quasi esibisce in bella mostra l'esistenza di un palcoscenico virtuale può comunque trovare una ragion d'essere anche e soprattutto dal punto di vista cinematografico. Il paradosso cui assistiamo con "Comedians" è che l'eccessiva fedeltà a un precedente lavoro di qualità sia il motivo del più inaspettato tradimento. In quel rapportarsi fra loro meramente teatrale dei protagonisti o in quel tentativo di rendere in italiano brillante il pezzo comico di ognuno di loro, in tutto questo c'è una sorta di incomprensione della missione originaria. La riflessione sull'essenza del lavoro del commediante, il vero asse portante del film e la parte che risente meno della trasposizione pedissequa e anche della traduzione linguistica, è tradita nella seconda parte dell'opera, perché, allorché i vari aspiranti comici, portano in scena la loro esibizione, il significato più profondo del loro dilemma (seguire il maestro del corso e assecondare la propria natura? O fare come Celli e dare al pubblico quello che esso, semplicemente, vuole?) si perde nell'ossessione per la correttezza filologica.
cast:
Alessandro Besentini, Francesco Villa, Natalino Balasso, Marco Bonadei, Walter Leonardi
regia:
Gabriele Salvatores
distribuzione:
01 Distribution
durata:
96'