Il cinema di Douglas Sirk vi libera la testa
Rainer Werner Fassbinder
Storia di un regista imbroglione
Nella metà degli anni 90 Martin Scorsese dedica al cinema del proprio Paese una personale dichiarazione d’amore con il documentario "Un secolo di cinema – Viaggio nel cinema americano". In questo lavoro, il regista italo americano esamina una selezione dei suoi film americani preferiti, raggruppati in tre differenti tipologie di registi. Uno di questi capitoli viene dedicato al regista imbroglione, così denominato perché, a dispetto della ricercatezza della forma, nasconde un messaggio sovversivo nei suoi film e, proprio per questa figura, viene citato Douglas Sirk. Dietro all’ambientazione ideale troviamo un’aspra accusa alla vita della provincia americana; Sirk racconta le convenzioni e le contraddizioni, allo stesso tempo. Claus Detlef Sierk nasce ad Amburgo all’inizio del secolo scorso, uomo elegante e forbito, studia diritto, giornalismo, filosofia e storia dell’arte. Il suo ingresso nel mondo dello spettacolo incomincia come suggeritore, poi si dedica più attivamente al teatro allestendo a Brema e a Lipsia molti classici di Shakespeare, Schiller, Shaw e Ibsen. Viene poi scoperto a Berlino dalla UFA, la prestigiosa major tedesca degli anni 30, per cui inizia a dirigere tre melodrammi. Tale genere diventa il paradigma della sua poetica, trovando poi, sul suolo americano, una sua firma sempre più riconoscibile e riconosciuta, poi, da molti giovani colleghi che ne trarranno ispirazione.
In "Magnifica ossessione" (1954) c’è l’infelice Jane Wyman, operata dal dottor Rock Hudson, che l’ha resa cieca in un incidente; in "Secondo amore" (1955) la stessa Wyman viene ostacolata dai figli nell’amore verso il giardiniere Hudson; in "Lo specchio della vita" (1959) Lana Turner sacrifica alla carriera il rapporto con la figlia, in controluce il razzismo strisciante del perbenismo borghese.
In una delle scene finali di "Secondo amore", citata anche dal documentario di Scorsese, i figli regalano alla madre il televisore, uno dei simboli del prestigio borghese dell’epoca e, nel contempo, simbolo dell’alienazione rispetto al cinema. La donna aveva visto nel giardiniere la rottura delle convenzioni e la fuga dalle tendenze omologanti, adesso la televisione la inchioda al suo ruolo di vedova e Sirk racconta questo senso d’oppressione con un lieve carrello in avanti in cui imprigiona, nei confini del piccolo schermo spento, il volto della Wyman. Dietro alla sfavillante magnificenza del Technicolor e all’elegante fotografia, il cinema di Douglas Sirk lancia una molotov al perbenismo borghese del cosiddetto "american way of life" e al conformismo di quegli anni, e "Come le foglie al vento" (1956) si distingue per l’incrocio di queste velate accuse e, insieme, porta all’estremo il piacere della finzione.
Un melodramma a tinte noir
Per contestualizzare meglio, è da segnalare, in principio, che questa pietra miliare appartiene allo stesso filone di diverse pellicole prodotte nella seconda metà degli anni 50, giusto per citare i più celebri: "Il gigante" (1956) di George Stevens, "La lunga estate calda" (1958) di Martin Ritt, "La gatta sul tetto che scotta" (1958) di Richard Brooks, "Dalla terrazza" (1960) di Mark Robson. Tutti questi titoli contaminano il genere del melodramma con una significativa variante sociale passando dal ritratto della media borghesia a quello dell’aristocrazia americana dei potenti signori del petrolio o dell’industria pesante, e dunque rileggendo il sogno americano con occhi diversi, dove i protagonisti si muovono tra ambizione e brama di denaro. "Come le foglie al vento", però, compie un passo avanti, come si diceva, perché vira versa un pessimismo più radicale senza quasi speranza, orchestrando nel contempo uno spettacolo di pura finzione che mette ancora più a nudo la futilità di quel mondo rappresentato.
Tutti e quattro i protagonisti girano intorno al vuoto: si nutrono di false aspettative. Il ricco Kyle Hadley (Robert Stack) idealizza la vita matrimoniale ed è incapace di lasciarsi alle spalle le proprie debolezze e crescere, la sorella Marylee (Dorothy Malone, premio Oscar come miglior attrice non protagonista), ossessionata dal sesso, vive nella speranza di sposare l’amico d’infanzia del fratello, Mitch Wayne (Rock Hudson) che è, invece, ossessionato segretamente della moglie di Kyle, Lucy (Lauren Bacall): tutto ciò non è che un groviglio di speranze e malsani sentimenti che ruotano a caso senza un vero centro di gravità, una polveriera pronta ad esplodere appena una delle tante pistole e fucili, che si vedono durante il film, sparerà. E proprio su questo sparo che il regista tedesco si diverte a contaminare il genere del melodramma con un insolito retrogusto noir.
Fin dal folgorante incipit, Sirk sorprende lo spettatore e rompe la tradizionale linea temporale ripartendo un anno prima con un flashback che abbraccia tutta la durata del film. Una macchina irrompe nella notte e Kyle entra nella sua villa con una pistola in pugno, si sente uno sparo e lui esce barcollando; qui la pellicola riavvolge il nastro e riparte dal primo incontro tra Mitch e la futura moglie di Kyle. È pur vero che, con questa interruzione, la storia si tinge anche di noir e la suspense fa il suo ingresso nel melodramma, lasciando lo spettatore col dubbio di chi il ricco rampollo abbia ferito o ucciso, ma è altrettanto vero che a Sirk non interessa come vada a concludersi la vicenda. I suoi riflettori sono puntati sui sentimenti dei personaggi e sulle scelte che essi prendono.
La pellicola è un gioco di simmetrie perfetto e la si può dividere in tre parti, ognuna di esse è caratterizzata dalla presenza più accentuata di una coppia: la prima vede Kyle e Lucy dal primo incontro fino al loro matrimonio, poi Marylee e Mitch in continui agguati, di lei, e ricordi del passato, in ultimo Mitch e Lucy con l’amore proibito. Questa geometria di parallelismi viene evidenziata da frequenti scene allo specchio: nelle camere d’albergo, nella hall, nella villa Hadley. La presenza di una superficie riflettente vuole, quasi, mettere a nudo la "doppiezza" dei loro comportamenti e sentimenti e, non da ultimo, è un artificio scenico per esaltare quella finzione che lo stesso Sirk esibisce senza alcun risparmio.
L’uso del colore, nella splendida fotografia del fedele Russell Metty, accentua questo senso di finzione, peraltro già presente in altre sue pellicole, ma qui sembra accompagnare lo stato d’animo dei personaggi con una presenza più evidente e massiccia. L’alternanza dei blu coi rossi ha un senso ben preciso. Quando Kyle, dopo aver corteggiato e invitato Lucy in una stanza d’albergo, non la trova più, ecco che le pareti della stanza si tingono di un blu intenso: Kyle ha paura. Nella scena successiva Kyle corre attraverso un corridoio e il colore delle pareti è rosa schocking e la follia prende il sopravvento per poi diventare rosso di furia. Poco prima, sull’aereo, sempre Kyle confessa, per la prima e unica volta, le sue debolezze e i suoi limiti: il primo piano di lui è colpito da un rosso violentissimo, qui non è rabbia, ma senso di imbarazzo o forse senso di vuoto e inconsistenza. Il risultato è straordinariamente ambivalente, eccessivo e rigoroso allo stesso tempo, talmente azzardato da abissare il film nel kitsch per poi riemergere con uno stile raffinatissimo. Un autentico turbine.
Per tornare alla definizione di Scorsese, l’imbroglio di questa pellicola dov’è? Cosa si nasconde dietro ai sontuosi costumi o alle porcellane e ai cristalli? Si intravede qualcosa, ma non è in primo piano. Bisogna osservare ai margini della scena o nel montaggio che taglia al momento giusto. Fin dall’inizio la macchina attraversa un campo con le pompe che estraggono il petrolio, un modellino di questi estrattori giace sulla scrivania del patriarca Hadley e alcuni quadri lo ritraggono con tale modellino. Kyle tiene sotto il cuscino una pistola e suo padre ne tiene un’altra nel cassetto della scrivania, come il padre di Mitch con in mano spesso un fucile da caccia. Kyle porta a casa bottiglie di whisky di contrabbando e non riesce ad uscire dalla spirale dell’alcolismo. All’inizio del film, getta una di queste bottiglie nel giardino di casa, è notte e le finestre del seminterrato si accendono: la servitù è preoccupata. L’ossessione per il denaro e il petrolio, una società civile armata, il proibizionismo, la segregazione razziale: ecco l’altra faccia nascosta della Luna, l’altro volto dell’America che Sirk fa intravedere tra una spider in corsa ed eleganti feste dell’alta società.
Quello degli Hadley è un mondo fatuo, destinato a sgretolarsi e scritto nel vento. Il titolo, infatti, è tratto da un verso della canzone che apre la storia: "A faithless lover’s kiss in written in the wind" ("il bacio di un amante infedele è scritto nel vento").
cast:
Rock Hudson, Lauren Bacall, Robert Stack, Dorothy Malone
regia:
Douglas Sirk
titolo originale:
Written on the wind
distribuzione:
Albert Zugsmith
durata:
92'
produzione:
Universal
sceneggiatura:
George Zuckerman
fotografia:
Russell Metty
scenografie:
Robert Clatworthy
montaggio:
Russell F. Schoengarth
costumi:
Bill Thomas
musiche:
Frank Skinner