"Talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità"
(Eugenio Montale)
"(...), ha, you think it's funny
turning rebellion into money"
(Joe Strummer)
E' necessaria una premessa. Dato il coinvolgimento del recensore nei confronti della materia trattata, non ci si aspetti una critica oggettiva, questa volta, (né tantomeno una critica musicale). I Nirvana sono stati tra i primi, ben prima di Montale, a mostrami il punto morto del mondo, l'anello che non tiene. Durante la proiezione sono stato tramortito ad ogni canzone che riscoprivo (giustamente erano tutte sparate a volume mortale), a parte quelle dell'Unplugged che ho ascoltato così tante volte per anni che non posso riscoprirle: è come se fossero in rotazione continua sempre, sullo sfondo delle cose che faccio nella vita.
Chissà cosa pensava Kurt quando... beh ora lo sappiamo, o così ci viene fatto credere. Tutto il rockumentary si basa sull'accesso apparentemente illimitato ai quaderni/diari di Kurt e sul fatto che apparentemente lui vi scrivesse e disegnasse senza posa. In effetti è bello vedere, in mezzo a mille deliri, la scritta "cosa deve fare la band adesso: mandare i demo tape" ripetuta più e più volte fino a che non compaiono gli indirizzi delle etichette, tra cui quello della Sub Pop che a sua volta sfuma in un contratto percorso a volo d'uccello come fosse un paesaggio. Le animazioni dei disegni e delle scritte sono affascinanti, da "Mr Moustache" alla copertina di "Incesticide", e sono la vera spina dorsale del film. La vicinanza alla persona è quasi indiscreta (Cobain aveva scritto quei testi perché qualcuno li leggesse?) al limite dell'endoscopico, anche grazie alle numerose visualizzazioni plastiche dei famosi dolori allo stomaco del cantante.
Eppure non si può negare che sia interessante alfine capirci qualcosa della complessa infanzia di Kurt - che sostanzialmente termina con la scoperta della marijuana che sola lo solleva dalle crisi di nervi familiari e gli consente di dormire in pace. Allo stesso modo si chiarisce la serie di sfortunati accadimenti che ha fatto sì che un bel ragazzo biondo con grandi doti artistiche finisse dalla parte dei loser durante l'adolescenza. Infine è bello il peso dato alla ragazza storica di Kurt che lo ha mantenuto per qualche anno - quelli cruciali - durante i quali lei lavorava mentre lui stava in casa a farsi, scrivere, dipingere, comporre, assemblare suoni (il montage of heck che dà il titolo al documentario) e in sostanza a porre le basi del suo universo artistico. Da lì si passa ai demo tape e alla storia nota. In questo primo pezzo del film ci sono i momenti di massimo disagio durante le interviste ai genitori e gli inevitabili filmini familiari, ma i passaggi chiave sono efficacemente messi in scena come animazioni solondziane dai colori spenti accompagnate da brani di interviste in cui Kurt racconta i vari mesti aneddoti.
L'uso di due tipi molto diversi di animazione non è l'unico spunto stilistico interessante del documentario. Sui titoli di testa parte con potenza "Territorial Pissings" a dare la carica - ma ecco che sul finale il suono si scarnifica e si fa infine da parte e rimane solo la voce. E' quella di un matto, di un disperato, e l'emozione cambia di tono. Un momento altrettanto forte è l'improvviso flashback infantile su un Cobain biondo che vuole solo ascoltare musica durante l'esecuzione unplugged di "All Apologies". Anzi è così perfetto l'incastro, così ovviamente splendido, da sfiorare lo splendidamente ovvio. Il sospetto della ricerca della mossa ad effetto torna sui titoli di coda, una prevedibile "Smells Like Teen Spirit" a cui viene applicato lo stesso trucco della musica che lascia la voce sola sulla ripetizione di "A Denial".
Non che abbia niente contro la canzone: mi emoziona così tanto ancora che la ascolto poco, non lo voglio fare distrattamente. Comunque la canticchio così spesso che recentemente un amico di famiglia ha chiesto a mia figlia di tre anni "come fa la chitarra?" e lei ha fatto il suono dei primi tre accordi di "Smells..." "Tan - TaTan!".
I difetti allora.
All'alba degli anni 90 il capitalismo appariva così sfacciatamente trionfante ("La fine della storia" di Fukuyama è del 1992) da essere ancora più insopportabile. Venne allora lasciato più spazio del solito ai fenomeni culturali "alternativi" a patto che si convertissero in nicchie di consumo, quasi a guisa di vaccino. Il problema era che almeno alcuni di quelli che creavano questa cultura erano genuinamente eversivi e che alcuni (non tutti) i vaccini hanno effetti collaterali. Lacerato da questa tensione sta Kurt Cobain, ed è bello e interessante nel documentario sentirlo contraddirsi più volte nelle interviste (voglio il successo, sì no sì, mi piace il successo sì no sì, sfrutto il mio stesso dolore sì no sì). Sarebbe stato addirittura possibile un taglio sullo stile del "Nastro bianco" di Haneke "questa storia dello stato di Washington potrebbe essere utile a comprendere eventi destinati ad accadere di lì a pochi anni proprio a Seattle...". Invece Kurt e la sua musica e la sua droga fluttuano nel vuoto.
Ma anche qui - nel cuore del suono e della furia e della disperazione e della rabbia e dell'esaltazione e della malinconia della musica dei Nirvana, nel mezzo di queste emozioni violente, vedere che i media bollano istantaneamente Kurt come apatico rappresentate di una generazione apatica è un assurdo così lampante e lacerante da avere una valenza politica immediata. E' come vedere una persona spaccarsi le unghie per scavare il muro e uscire di prigione e sentire che le guardie gli dicono "lo fai solo perché sei annoiato".
Un altro difetto: troppo, troppo lungo il pezzo sulla querelle con la stampa americana vs la coppia Kurt/Courtney. Considerato che ogni volta che appare in scena Kris Novoselic si ride (nei flashback) o si sentono parole di saggezza (nell'intervista di adesso) sarebbe stato decisamente meglio dedicare metà del tempo dato a "Vanity Fair" all'amicizia Kurt-Kris-Dave che ha dato origine ai Nirvana.
In definitiva, sia nella scelta del materiale che dello stile un documentario decisamente interessante ma meno innovativo del suo soggetto. Forse era inevitabile.
Da ateo ho comunque sempre trovato una buona idea i rituali religiosi. Almeno per un'oretta provi a costringere tutti a smettere di pensare al contingente e agli affanni quotidiani e a vedere le cose su una scala più ampia. E' per questo che alcuni andranno a vedere questo documentario. Per riflettere sulla propria storia e sulle proprie emozioni su una prospettiva di venti anni. Per riflettere su ciò che poteva essere e non è stato, su uno scarto, un clinamen, un pintoriano reinventare la vita che non è riuscito a Kurt, figuriamoci a noi.