Che cosa ha in comune Jessica Hausner con Justine Triet, la regista francese Palma d'oro a Cannes nel 2023 con "Anatomia di una caduta"? La risposta è rintracciabile nell'osservazione di un formalismo estetico a tratti ossessivo che entrambe le cineaste europee condividono con diversi altri autori della loro stessa generazione. Cinema che trattiene le emozioni, che si ostina a cercare geometrie e simmetrie, che cerca, con una perserveranza anche ammirevole, di giungere a una pulizia stilistica estrema. L'austriaca Hausner aveva già affrontato questa esperienza nei suoi lungometraggi precedenti, l'ultimo dei quali, "Little Joe", ha non pochi punti di contatto con "Club Zero" anche per quanto concerne il ritmo narrativo e l'uso del linguaggio cinematografico; ma qui, in questa sua ultima sortita dietro la macchina da presa, la regista viennese giunge a un punto di non ritorno, oltre cui, necessariamente, dovrà imporre a se stessa una riflessione sul senso dell'immagine (anzi, delle immagini) che sceglie di includere nelle inquadrature del suo cinema.
La satira, la storia, la scrittura, quindi, appaiono elementi che devono per forza di cose asservirsi a un credo estetico, a una scelta di campo visiva che non ammette compromessi. Di conseguenza, gli snodi narrativi, lo sviluppo stesso della vicenda deve passare da qui, da una messa in scena rigorosa e intransigente, oltre che dal rispetto di una serie di canoni che Hausner decide fortemente di seguire. Si è detto della geometria delle inquadrature, della simmetria degli spazi, ma potremmo aggiungere anche dell'attenzione alle scelte cromatiche, con un utilizzo particolarmente ostentato di una fotografia che accentua il contrasto fra colori primari, in modo da renderli netti e in contrapposizione fra loro, in un ambiente che, al pari delle stesse decisioni registiche, non concepisce sfumature o gradazioni di sorta.
Tutto questo, però, si scontra con una impressione di fondo che non possiamo accantonare: l'arte di Hausner trasuda programmaticità, tradisce una immaturità tecnica che si evidenzia fin dalle prime sequenze. Dal principio, infatti, nel giro di poche scene, l'autrice fa uso di: ralenti, long take, carrellate circolari, zoomate. Sembra un catalogo mutuato in toto dal cinema postmoderno dei più spregiudicati alfieri dell'ultima New Hollywood (quella che forse dovremmo definire, in modo un po' cacofonico, new new new), un catalogo, però, che non ha alcun ordine o coerenza, ma diventa (o almeno rischia di diventare) una esibizione di perizia tecnica piuttosto fredda e inspiegabile alla luce di ciò che vediamo in scena. E che cosa vediamo, dunque? Assistiamo a una sorta di inquietante profezia, mascherata da satira sociale, nella quale una quotatissima scuola privata insegna ai suoi studenti anche la materia "alimentazione consapevole" che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe essere l'occasione per insegnare ai ragazzi l'emergenza cibo sul pianeta. Consumare meno, utilizzare ingredienti e materie prime sane, contribuire all'ecosistema generale e arrestare la degenerazione ambientale che sta portando alla morte della Terra. Ma la professoressa Novak (l'intepretazione di Mia Wasikowska è di gran lunga l'elemento migliore di "Club Zero") ha un'idea ben più radicale da trasmettere ai suoi allievi che comincia a manipolare al punto da condurli al digiuno completo in una sorta di percorso di auto-coscienza che non ha neanche un vero perché; l'assenza di alimentazione, attraverso una specie di potere mentale che dovrebbe permettere al corpo di non avvertire più la fame e quindi non avere più bisogno del cibo, è raccontata nel film come una forma di scelta estremista integralista, non è né una forma di fondamentalismo ambientalista, né una decisione di natura filosofica o etica.
La satira che su tutto ciò imbastisce Hausner si orienta su più piani, in modo ambizioso e con toni da narrazione apocalittica, che fanno di "Club Zero" il suo lungometraggio nettamente più ambizioso. Contiamo almeno tre spunti di riflessione che l'autrice suggerisce e che meritano una sosta. Il primo, e più evidente, è l'allarme sulle ideologie ultra-ambientaliste colpevoli di trasformare i gruppi di persone che credono in esse in sette di estremisti pericolosi se non per la comunità almeno per loro stessi. Il "respirianesimo" che propina ai suoi allievi la professoressa non concede scale di grigi nella concezione del mondo: o si riesce a giungere al più totale digiuno o l'alternativa è la morte, non come conseguenza della cessata alimentazione, ma come unica possibilità per sfuggire alla realtà che si assume inaccettabile. Se il corpo rigetta una pratica così rigorosa, allora meglio non far parte di questo mondo. In secondo luogo c'è un'osservazione molto dura nei confronti di quel mondo moderatamente progressista, vagamente democratico e/o laburista (a seconda di quale Paese occidentale si voglia utilizzare come metro di paragone per l'ambientazione del film), che, ancora una volta, si mostra in tutta la sua contraddizione di fondo: si è di sinistra, ci si professa contro il consumismo e contro il cambiamento climatico - sembra dire Hausner - solo se si hanno case da milioni di dollari, solo se si è liberi professionisti senza vincoli di lavoro subordinato, solo se si acccede a un circolo sociale dove portare quei temi e quelle argomentazioni aiuta a presentarsi come persone migliori. Il terzo profilo su cui agisce lo sguardo satirico della cineasta austriaca sa più di ammonimento per il futuro; Hausner sembra dirci, infatti, che questi ragazzi, educati freddamente, con princìpi inesistenti e valori evanescenti, diventano esseri umani privi di caratterizzazione e personalità e non è più questione di differenza di genere, si tratta piuttosto di perdita di emozioni e di slanci vitali. Questi allievi della Novak, che vestono tutti uguali e si spengono senza rendersene conto, diventano agli occhi dell'osservatrice Hausner il prodotto di una società contemporanea allo sfacelo, incapace di proteggere persino i pochi obiettivi sani che le sono rimasti.
Lo sguardo della cineasta austriaca ci riporta alla considerazione di fondo; questa satira grottesca, a tratti anche respingente nella sgradevolezza dei toni, perde il suo rigore nell'eccesso di formalismo e per questo il paragone con il maestro Michael Haneke risulta improponibile. Innanzi tutto, dal punto di vista puramente cinematografico, lo stile di Haneke non ha nulla di compiaciuto e il controllo del mezzo è sempre perfettamente in linea con il contenuto del racconto; in secondo luogo la parola rigore, spesso usata per la filmografia del grande vecchio del cinema austriaco, non ha eccessi compiaciuti. Hausner, invece, pare innamorarsi della sua abilità di messa in quadro a scapito di ciò che vuole rappresentare attraverso le immagini che si ostina a mostrare.
cast:
Mia Wasikowska, Sidse Babett Knudsen, Elsa Zylberstein, Mathieu Demy, Ksenia Devriendt
regia:
Jessica Hausner
durata:
110'
produzione:
coop99 filmproduktion, Coproduction Office, Essential Films, Parisienne de Production, Paloma Produc
sceneggiatura:
Jessica Hausner, Géraldine Bajard
fotografia:
Martin Gschlacht
scenografie:
Beck Rainford
montaggio:
Karina Ressler
costumi:
Tanja Hausner
musiche:
Markus Binder