Nascoste dietro quella timidezza che cela una grande forza d’animo e vestite delle tradizionali gonne lunghe e colorate, le cholitas sono un simbolo della Bolivia. È il nome con cui sono conosciute, nel Paese andino, le donne di etnia indigena, riconoscibili anche per le suggestive bombette, in stile chapliniano, che talvolta ricoprono le loro capigliature arrangiate con lunghe trecce nere. Ma le cholitas, ovviamente, non sono soltanto un fenomeno di folklore locale. Sono l’emblema della donna che tenta di emanciparsi nella società boliviana contemporanea, in netto ritardo sia rispetto ai Paesi occidentali più avanzati, sia con riguardo alle concittadine di condizione sociale più elevata (leggasi: bianche).
È lo stesso appellativo di cholitas, usato nei loro confronti, a dare conto della loro condizione. Si tratta, infatti, di un termine spregiativo, che le classi dirigenti bianche del paese hanno a lungo usato per indicare queste donne e ragazze indigene di umili origini. È stato con l’arrivo al potere di Evo Morales, primo presidente indigeno della Bolivia, che le cholitas hanno ottenuto, finalmente, la rivincita sociale tanto attesa: il riconoscimento del loro ruolo di colonna portante della società, di madri, di grandi lavoratrici e di custodi di un patrimonio tradizionale e culturale da tutelare.
La metafora della montagna da scalare giunge in maniera perfetta a descrivere la condizione e la storia di quelle donne. Ancor di più se la montagna in questione è l’Aconcagua, la vetta più elevata del Sudamerica e dell’intero continente americano.
Quell’impresa è diventata un film quando, grazie ad una produzione internazionale (Spagna, Giappone, Cile, Bolivia) e al contributo di alcuni sponsor tecnici, cinque di quelle cholitas hanno potuto tentare la scalata della montagna che, dall’alto dei suoi 6.962 metri, domina la Cordigliera delle Ande. Cinque donne di diverse età (dai 25 ai 55 anni), accomunate dal fatto di vivere in un sobborgo di La Paz situato oltre i 4.000 metri sul livello del mare. Avvezze, dunque, all’altitudine e alla montagna, considerato anche il fatto che alcune di loro sono sposate con delle guide che accompagnano i turisti sulle cime attorno alla capitale boliviana, mentre le mogli si dedicano a professioni più tradizionali: la maestra, la casalinga, la custode. Talvolta, anche quelle di portatrici o cuoche nelle spedizioni guidate dai mariti. Ma i ruoli si invertono, per una volta, quando le cinque partono - entusiaste, ma con quell’apprensione tipica delle donne di casa restie a lasciare ad altri la cura del focolare domestico - per raggiungere l’Argentina e il campo base dell’Aconcagua.
Da lì comincerà l’ascensione verso la vetta, rigorosamente in abiti tradizionali Aymara e con un coloratissimo fagotto legato alla schiena, in luogo degli zaini e dell’abbigliamento tecnico che indossano le due guide che le accompagnano, insieme alla troupe. In quei giorni di libertà ed emancipazione, di lacrime e di sorrisi, diventeranno le beniamine degli alpinisti professionisti che, come loro, tentano l’ascesa (tutt’altro che semplice, ovviamente) del gigante sudamericano.
E poco importa chi o quante di loro effettivamente riusciranno a raggiungere la cumbre, la vetta dell’Aconcagua. E se ce la faranno. Sarà bello scoprirlo, per chiunque voglia dare una chance a questa piccola gemma del cinema di montagna, presentata lo scorso dicembre in Spagna e che il 27 agosto è approdata al Trento Film Festival, ove ha avuto l’onore di aprire la rassegna, dopo essersi aggiudicata il premio CAI come miglior film di alpinismo al XXIII Cervino CineMountain Festival.
Il documentario di Pablo Iraburu e Jaime Murciego (registi spagnoli non nuovi a questo tipo di progetti) diventa esso stesso il mezzo di finanziamento di un'operazione che diversamente non si sarebbe quasi certamente potuta mettere in piedi, a causa delle condizioni di povertà delle protagoniste e degli alti costi che si devono sostenere per spedizioni di questo genere. Perché una cosa è scalare le vicine vette della Bolivia, cosa a cui ormai quelle donne hanno preso gusto, dando origine a un vero e proprio fenomeno di costume, quello delle cholitas escaladoras. Altro è finanziare una spedizione sull’Aconcagua.
La messa in scena abbraccia, in apertura, uno stile arrembante e moderno, mantenuto per tutta la sequenza di presentazione delle cinque cholitas, con i nomi di ciascuna di esse in sovrimpressione a precedere immagini di una quotidianità pronta ad essere stravolta, montate freneticamente, con un ampio ricorso al jump cut. Lo stile si normalizza nel prosieguo, e il formalismo lascia spazio alla narrazione e, soprattutto, alle emozioni, genuine, che sgorgano dai volti delle protagoniste, totalmente immerse in un’impresa affascinante, ma portatrici – com'è inevitabile – di preoccupazioni e inquietudine.
Perché di questo, in fondo, tratta "Cholitas", un’opera che nei suoi connotati estremamente naif, nella sua per certi versi inevitabile ingenuità, nei suoi perdonabili passaggi retorici, nasconde un toccante richiamo alla semplicità e all’emotività più sincera.
cast:
Ana Lía Gonzales, Lidia Huayllas, Cecilia Llusco, Dora Magueño, Elena Quispe
regia:
Jaime Murciego, Pablo Iraburu
durata:
80'
produzione:
Arena Comunicación, Mimbre Producciones, NHK
sceneggiatura:
Pablo Iraburu, Jaime Murciego
fotografia:
Jaime Murciego
montaggio:
Pablo Iraburu, Migueltxo Molina, Jaime Murciego
musiche:
Mikel Salas