Avercene, film così. Veraci, autentici, personali, non riconducibili a nessun altro autore, a nessun'altra corrente. Interpellato dal sottoscritto in merito, durante un collegamento via Skype con la sala del cinema Beltrade di Milano, il regista - l'esordiente Jhonny Hendrix Hinestroza - ha parlato chiaro: i suoi cineasti di riferimento sono
Emir Kusturica,
Lars von Trier, e Aki Kaurismaki; ma quando ha iniziato a girare il suo film li ha messi temporaneamente da parte, cercando di ascoltare le voci, di intercettare le sensazioni del suo luogo d'origine, che poi è lo stesso dell'ambientazione, e il cui nome è a sua volta quello della protagonista (Karent Hinestroza, nessuna parentela con il regista) e del film medesimo: Chocó.
E in effetti è difficile dargli torto. Per la descrizione di un ambiente pauperistico, quello dei neri di una Colombia forestale, l'aderenza della regia a quanto raccontato, il coinvolgimento di attori non professionisti, si può tirare in ballo il Neorealismo italiano. Come dimenticare la sequenza di "Ladri di biciclette", in cui Lamberto Maggiorani, con un moto d'orgoglio, porta il figlio in trattoria, nonostante per lui sia difficile lavorare dopo il furto subito? Ebbene, anche Chocó, perso il lavoro, vuole riscattarsi agli occhi della figlia e comprarle una torta per il compleanno. Ed è questo uno dei fili conduttori di un'opera a cui però interessa l'affresco d'insieme. E che, a differenza dei film di Vittorio De Sica e compagnia, vira verso un finale che sa di violento riscatto sociale, sulla scorta, forse, di un cinema politico che si è prodotto altrove nei decenni successivi, sia nel medesimo continente latinoamericano (a firma Glauber Rocha, per esempio), sia in altri luoghi abitati da popoli paria: Ousmane Sembène non è transitato invano, tra i dannati della terra.
Ma ribadiamo: inutile ricondurre al noto quello che, pur non operando una spiazzante rivoluzione stilistica, è un lavoro che rifugge da facili classificazioni.
L'insieme, dicevamo. "Chocó" descrive, con semplicità solo apparente, un ambiente circoscritto - quello di paese -, in cui tutti si conoscono, le persone si identificano col ruolo che ricoprono. C'è il bottegaio di riferimento. C'è chi dirige una miniera, ed è ovviamente un uomo. Le lavoratrici però sono donne; un vero e proprio proletariato femminile (impersonato dalla protagonista, l'unica di cui seguiamo pedissequamente le gesta), dovendo badare anche ai lavori e ai servizi sessuali domestici, fa i salti mortali per tirare avanti la baracca. La gerarchia di genere domina, la solidarietà di genere latita. La personalità di Chocó ha però la meglio, pur dovendo transitare da umilianti, pasoliniane stazioni di una privata via crucis, e punire crudamente un marito fannullone, alcolizzato e malato di gioco (che fa il musicista: professione che di solito esercita un proverbiale fascino esotico e che qui viene demitizzata). E parliamo di una sequenza memorabile, anticipata da un flashforward, che lo spettatore inizialmente crede visionaria, ma che si rivela di un realismo allucinatorio da far impallidire un Mo Yan.
Realizzato tra tante difficoltà produttive - causa uno script che spaventava i potenziali finanziatori, poco interessati a storie di "donne e negri"-, transitato poi nel 2012 alla Berlinale e al Milano Film Festival, anche "Chocó", come tante opere degne di nota realizzate negli ultimi anni, sfida il mercato italiano grazie alla buona volontà di un piccolo distributore (Cineclub Internazionale di Paolo Minuto, che ha oculatamente optato per i sottotitoli e non per il doppiaggio) e di pochi donchisciotteschi esercenti. Verrà visto da un ristretto manipolo di spettatori, ed è un vero peccato. La ricorrenza dell'8 marzo, prossima alla data di uscita, si sarebbe prestata perfettamente a un battage pubblicitario su larga scala per un'opera che sposa un punto di vista squisitamente femminile, portando in risalto problematiche sociali che trascendono il luogo di ambientazione, assumendo connotati universali.
09/03/2014