Bob Fosse, autore teatrale e ottimo regista cinematografico, mise in scena questo delizioso musical nel 1975. Non riuscì a fare ciò che fece anni prima con altri musical: trasferirlo sul grande schermo. Con lo splendido "Cabaret" e con "All that jazz" (il suo narcisistico e commovente "Otto e mezzo") Fosse rivoluzionò un genere in piena fase calante regalandoci quelli che, ancora oggi, sono gli ultimi grandi musical della storia del cinema, i primi ad entrare a pieno diritto, molto prima di "Moulin rouge", nella categoria onnicomprensiva e dai contorni ancora mal definiti di "musical post-moderno".
Quei testi filmici dal personalissimo stile (primi piani, montaggi paralleli nei momenti musicali, atmosfere cupe, sguardi perversi, assenza di campi totali nei numeri) e tematicamente incentrati su tutto ciò che fa spettacolo nella cinica "società dello spettacolo" sono stati studiati scrupolosamente sia dal regista del film (Rob Marshall, lo stesso della versione teatrale, qui al suo esordio), sia dallo sceneggiatore Bill Condon (che qualche anno fa aveva scritto e diretto "Demoni e Dei" vincendo un Oscar per la sceneggiatura). La
pièce originale, una sorta di "Prima pagina"
ante litteram, una satira sulla manipolazione giornalistica e sui mostri dati in pasto ad una folla indistinta in cerca di modelli da imitare (sempre attuale), fu già portata sullo schermo nel '27 e nel '42 da William Wellman.
Nonostante la patina "miramaxiana" altrove insopportabile e la scelta di attori di chiara fama che hanno rimpiazzato i cantanti e ballerini provetti dell'edizione teatrale, questa trasposizione cinematografica è accattivante, seducente, tecnicamente ineccepibile. René Zellweger, Catherine Zeta-Jones e Richard Gere sanno di non poter gareggiare con i miti del passato e dunque giocano con loro, si dimenano ed intonano canzoni che rimandano direttamente alle danze sinuose e provocanti di una Liza Minnelli (modello per la signora Douglas che con caschetto alla Louise Brooks si fa perdonare, almeno in parte, le pessime interpretazioni del passato), agli eleganti tip tap di un Fred Astaire (modello per l'avvocato Gere), agli ancheggiamenti tentatori di una Marilyn circondata da procaci maschietti o a certe smorfie di Ginger Rogers (modello per la Zellweger).
Il montaggio segue il ritmo sincopato del jazz e fa convivere "realtà" e trasfigurazione/deformazione musicale. I momenti coreografici e musicali, ripresi spesso con inquadrature oblique e lenti deformanti, non solo replicano i contenuti dei "recitativi" ma accrescono lo spessore psicologico dei personaggi: ogni canzone è una sorta di confessione, di smascheramento, è il luogo in cui la verità emerge. Dalle protagoniste Roxie e Velma (che duetteranno, con mitragliatrice, nello scoppiettante finale) all'ambigua carceriera (un'ottima Queen Latifah in "When You're Good to Mama"); dall'avvocato da operetta che persuade la giuria con un'arte retorica che è un "tip tap della lingua" (Gere, autoironico ergo digeribile) al triste e stupido maritino Amos (non a caso John Reilly canta "Mr. Cellophane"): tutti hanno il loro fugace momento di gloria in una società, quella dello spettacolo, in cui le stelle nascono e muoiono nel giro di ventiquattro ore, in cui tutti operano applicando la tattica del "fumo negli occhi", in cui l'omicidio è una forma di intrattenimento. Il giornalismo segue morbosamente le tracce di sangue lasciate sul selciato che conduce alla notorietà da "Eve" disposte a tutto, "gold diggers" crudeli plasmate da uomini ancora più cinici.
Un film sfavillante ma al tempo stesso algido ed imperfetto come il mondo che rappresenta, freddo esercizio di stile in netta antitesi con il caldo sentimentalismo di "Moulin Rouge".
(in collaborazione con
Gli Spietati)
06/06/2008