Gli ergastolani sono forti, palestra quotidiana, sport collettivo nelle ore d'aria. Poi c'è la rabbia. Quella forza intima che gli sale dal sangue. Il quale ama solo ed esclusivamente se stesso. Sangue chiama sangue.
I secondini invece sono padri di famiglia, sono funzionari. Siedono la maggior parte del tempo, parlano e giocano a carte nei turni di riposo. Bevono.
C'è un divario. Un abisso. Il manganello è il primo a sprofondare nel baratro della paura, quando la distanza si assottiglia e ti ritrovi alla stessa altezza dei detenuti. Scendi nell'inferno e vedi come si sta. Non fa caldo. Figuriamoci. Fa freddo. Fa tremare. Come il brivido che ti corre lungo la schiena se hai un coltello puntato sulla pelle nuda.
C'è solo un modo, per un povero sfigato (nel senso di individuo molto poco fortunato) come Juan. Un solo modo per cercare di salvare la pelle: fingersi un detenuto. Poco credibile? No. La chiave di lettura è ben più disarmante. Gli riesce così bene (e nessuno se ne accorge) perché, in fondo, nell'intimo è esattamente come loro.
Un essere umano.
Che di per sé è violento e brutale.
Ma la storia non finisce qua. L'idea, questa di cui sopra, è solo la punta dell'iceberg di una visione molto più ampia (quella di Monzón, che ha azzeccato un film incredibile modificando non poco il buon romanzo "Celda 211"). Visione, questa, che è irrimediabilmente legata alla congiuntura, all'oggi, al dramma dei dissensi da strada figli di una crisi non solo economica ma anche morale, al peso politico che ha avuto, e continua ad avere (non solo in Spagna), la "condizione dei carcerati". E poi, trattandosi di un film profondamente spagnolo, in tutto se stesso trasuda quella vergogna, quella rinnovata furia all'indirizzo di certe prese di posizione del Gobierno nei confronti degli etarras.
Siamo lontani dall'algida e disarmante crudeltà dei romanzi di Bunker, o dalla trasognata poetica dei film di Darabont - che a loro volta si allontanavano per sguardo personale dai mostri sacri del cinema carcerario made in Usa. Per certi versi non è neppure accomunabile al bellissimo "Il profeta", altro film che sconvolge le regole del genere in questo 2010 cinematograficamente già molto prolifico. "Cella 211" è diverso e lontano perché assolutamente scollegato da un tipo preciso di plot e genere. Anche da un punto di vista comunicativo, si tratta di un'opera che ha molto da dire proprio a livello di "(de)formazione". Violenta, esasperata. Figlia del nostro - purtroppo - male di vivere.
Veloce, intenso, drammaticamente privo di qualsivoglia romanticismo, interpretato magistralmente (Tosar è devastante) e girato - in quel digitale un po' sgranato e fluido da filmato del telegiornale della sera - con talento invidiabile.
Insomma, un film straordinariamente perfetto.
cast:
Luis Tosar, Alberto Ammann, Carlos Bardem, Marta Etura, Antonio Resines
regia:
Daniel Monzón
titolo originale:
Celda 211
distribuzione:
Bolero Film, BIM
durata:
110'
produzione:
La Fabrique 2, La Fabrique de Films, Morena Films, Telecinco Cinema, Vaca Films
sceneggiatura:
Jorge Guerricaechevarría, Daniel Monzón
fotografia:
Carles Gusi
scenografie:
Antón Laguna
montaggio:
Cristina Pastor
musiche:
Roque Baños