New York, una giornata come tante.
Un uomo in macchina (Harvey Keitel) impreca contro i due figli che hanno fatto tardi e adesso gli tocca accompagnare a scuola; su una cosa sono d’accordo: i Dodgers avranno partita facile.
Traffico, greggi umane che si muovono all’occhiolino del semaforo, suono della campanella, bacio al papà brontolone, una sniffata di cocaina.
Inizia così il pedinamento di un uomo senza nome, cui basta darsi una ripulita alle narici imbiancate e inserire una sirena sul tettuccio per diventare "il cattivo tenente".
È un ballo in maschera, il film di Abel Ferrara, un low budget che lo consacrerà autore di livello internazionale, da solo, senza l’ausilio in fase di scrittura del nume tutelare Nicholas St. Jones.
Il cattivo tenente è un tossico alcolizzato che spezza la monotonia dello sballo con l’azzardo delle scommesse clandestine, quelle sulla partitissima che i Dodgers sembrano avviati a vincere senza difficoltà. Proprio lì il terreno inizierà a franare: la caduta del poliziotto segue lo stesso declino di quei formidabili giocatori di baseball e ognuno, a suo modo, ne pagherà spese e conseguenze.
C’era una volta Abel Ferrara, si potrebbe dire.
Un regista che aveva fatto ben sperare e che si è invece come spento subito dopo "The Funeral" ("Fratelli", 1996). Ispirato agli esordi di Martin Scorsese, quelli di "Chi sta bussando alla mia porta" e "Mean Streets", Ferrara si muove con profonda circospezione in un ambiente che pur conosce benissimo: il suo habitat naturale, la sua gente, i suoi vizi, i suoi tormenti.
Il risultato è un film fosco, a volte inintellegibile con la sua fotografia sottoesposta, con quei rumori di fondo che accrescono e esasperano un caos che è innanzitutto interiore.
Il problema non è più "il traffico impossibile di New York" ma il basso continuo, rituale, di migliaia di urli munchiani, disperati, di angosce private che pesano meno di un brufolo nel corpus metropolitano e coperti dalle basse frequenze delle stazioni radio, dai neon lampeggianti, da automezzi di ogni stazza che spostano da un punto all’altro pedine di carne al limite dell’incoscienza.
Non è un caso che in una storia le cui acque sono limacciose, l’unico modo che ha il poliziotto per sfogare la rabbia dell’ennesima scommessa persa è quella di confondere le sue urla disperate con gli ululati della sirena che accende al massimo volume, in un minuetto dissonante degno del migliore Jacques Tati.
Il problema del tenente, suggerisce Ferrara, non è la cattiveria: è il cinismo. Il punto di svolta del film è infatti la presa di coscienza di un atto gravissimo non in quanto tale (lo stupro della suora) ma in quanto condannato con il perdono che la donna somministra ai due mostri che lei addirittura conosce. Tutto ciò, al cattivo tenente risulta intollerabile.
Egli, nella sua pur scarsa lucidità, è totalmente proiettato nel fattaccio, vi rivede sé e la sua condotta abietta per la quale può accettare di essere maledetto in eterno ma mai perdonato o addirittura benedetto. Benedetto in quanto, dice la suora, la violenza è solo un’urgenza, la fame che più ha fame, la sete che più ha sete, la fede che più ha fede.
È intorno a questa tesi ardita, è noto, che Saint John rinunciò a scrivere il film che fu invece firmato dallo stesso Ferrara e da Zoe Lund (già protagonista de "L’angelo della vendetta", 1980) e qui nei panni di una fattona che allevia gli acufeni di Keitel con eroina in vena e parole sussurrate.
St. John non ha mai voluto "spingersi troppo aldilà sulla questione della Grazia", Ferrara lo fa e gli va bene, il messaggio passa (forse inosservato) e il film non se ne appesantisce.
Piccolo dazio è una leggera censura (circa tre minuti) della pellicola passata nelle sale italiane (ma non nelle copie homevideo). Essi non riguardano né la tesi ardita, né le nudità di Keitel, al massimo imbarazzanti, e neppure le crude scene dello stupro e della visita ginecologica. Sono invece concentrati sull’indugio della cinepresa fissa sul buco del tenente che ha una durata insostenibile, come la realtà, giacché registra l’esatta presa della vena, il pompaggio e il risucchio del sangue che si mescola ex-corpore alla droga, quasi una cattura dell’anima che prelude a quello che tecnicamente si chiama "il flash maggiore". La pornografia dopotutto è solo persistenza.
Tornando al film, merita una menzione d’onore la fotografia di Ken Kelsch (che ritorna con Ferrara dopo "The Driller Killer", 1979) molto accorto a lavorare più di buio che di ombra (di luce nenanche a parlarne).
La cinepresa di Ferrara è al solito molto mobile e scorsesiana, coi suoi carrelli avanti e indietro poco fluidi ma proprio per questo molto significativi. Anche la colonna sonora ha un debito con Scorsese, con la melensa "Pledging My Love", vedi "Mean Streets", che sortisce un altro momento di spiazzamento à la Tati, quando dopo il sesso e la droga pensi arrivi un qualche rock’n’roll in 4/4 e invece la pista sonora si riempie di quel mieloso "Forever My Darling…".
Solo più avanti Ferrara recupera la cazzimma suburbana, il rap di Schoolly D, e la psichedelia folk de "La ballata del cattivo tenente" che proprio Ferrara e Paul Hipp (qui nelle vesti, stracciate, di Gesù Cristo) avevano scritto di pretesto al film.
L’ultimo appunto è dedicato a Harvey Keitel, presente in quasi tutte le inquadrature del film. La sua recitazione è giocoforza a forte rischio di gigionismo ma se ne esce abbastanza bene, un sonnambulo che si trascina spettinato, unto e stazzonato fino a quando si denuda completamente e giugulando o forse piangendo muove le mani come fossero ali, quasi come un albatro disperato che non riesce a spiccare il volo.
cast:
Paul Calderon, Victor Argo, Robin Burrows, Zoë Lund, Harvey Keitel
regia:
Abel Ferrara
titolo originale:
Bad Lieutenant
distribuzione:
Aries Films
durata:
96'
produzione:
Bad Lt. Productions
sceneggiatura:
Abel Ferrara, Zoë Lund
fotografia:
Ken Kelsch
scenografie:
Charles M. Lagola
montaggio:
Anthony Redman
costumi:
David Sawaryn
musiche:
Joe Delia