recensione di Carla Fellegara
Nuovo maestro di quel genere cinematografico mai dimenticato (ma dai risultati e dal gradimento altalenanti) che è la commedia, Paolo Virzì, con disinvoltura, sforna un nuovo film imperniato sul mondo giovanile e le sue contraddizioni: "Caterina va in città".
Eccolo, quindi, dopo "My name is Tanino", portare sullo schermo una nuova storia con protagonista la pre-adolescente Caterina, tredicenne carina ed ingenua di Montalto di Castro, di colpo proiettata dalla tranquilla e sonnacchiosa realtà di provincia, alla superaffollata e spersonalizzante Capitale. Così la famiglia Iacovoni, un po' fantozzianamente, arriva a Roma, a seguito delle velleità mai riposte del padre, professore di ragioneria ed aspirante scrittore. Frustrato e ambizioso il padre iscrive Caterina alla scuola più esclusiva della città e la spinge a frequentare le compagne socialmente più in vista sperando in un aggancio per la pubblicazione del proprio romanzo. La candida Caterina sarà facile preda delle più spregiudicate compagne di classe impegnate in un confronto pseudo-politico a lei del tutto estraneo.
E' bella Caterina, ingenua e fiduciosa, se ne va con una e con l'altra delle sue nuove facoltose amiche, prima Margherita, figlia d'intellettuali di sinistra, già politicizzata ed estrema, poi Daniela, figlia di un discutibile ministro di destra, viziata e trendy. La migliore, naturalmente, è lei, la provincialissima Caterina, spaesata e frastornata, demodé e disponibile, attraversa il film travolta da esperienze e delusioni, rabbia e infatuazioni, vedendo cadere a pezzi il padre, la sua famiglia e quelle amicizie in cui aveva creduto. Alla fine ritroverà se stessa e la sua originaria passione per il canto che la porterà al conservatorio di Santa Cecilia.
Più amaro del solito Virzì trova in "Caterina va in città" la sua verve migliore, offrendo uno spaccato disilluso e malinconico della società italiana. Un Italia divisa in due dove politici ed intellettuali si spartiscono il potere ed agli altri, quelli "normali", non resta che stare a guardare. Come ci ha abituati Virzì fin dal lontano "Ferie d'agosto" ce n'è per tutti: per l'
intellighenzia di sinistra, nevrotica ed omologata, per i politici di destra, festaioli e volgari, per le persone comuni, frustrate e meschine. Qualche qualunquismo nei dialoghi e nelle situazioni, molto macchiettismo nella caratterizzazione dei personaggi eppure il tutto risulta efficace, godibile e cedibile.
Per render merito al regista ed alla sua Caterina ci sarebbe da scomodare Scola e Monicelli, vale a dire gli insuperati maestri della commedia all'italiana, ma Virzì ha preferito ricordare, in questo decennale dove gli omaggi si sprecano, Federico Fellini ed il suo "Moraldo va in città" primo titolo originale di quello che è poi diventato "La dolce vita", dove l'idea di fondo è sempre quella del provinciale all'inseguimento di un mondo che attrae e respinge.
Tanti i personaggi noti che hanno prestato il loro volto per interpretare se stessi: da Benigni all'ex ministro Melandri, da Maurizio Costanzo a Michele Placido.
Sorprendente Alice Teghil, una tredicenne assolutamente candida e convincente, tutti bravi gli altri, da Sergio Castellitto, in una delle sue migliori prove a Margherita Buy, nel ruolo di moglie sempliciona ma tenera e poi Claudio Amendola a cui i ruoli di romano, anche se ministro, sono sempre congeniali. Da sottolineare la scelta di attori di rilievo per le parti minori, Galatea Ranzi e Flavio Bucci, che danno il loro contributo alla riuscita del film.
05/06/2008