La forza di un film come "Carol", ambientato nei primi anni 50, deriva in buona parte dal fatto di provenire direttamente da quel periodo. Lo
script di Phyllis Nagy, infatti ("Carol" è il primo film di Todd Haynes la cui sceneggiatura non porta la sua firma), è tratto dal secondo romanzo di Patricia Highsmith, "The Price of Salt" (questo il titolo col quale fu originariamente pubblicato nel 1952), un romanzo che la scrittrice - nonostante il grande successo dell'esordio, portato sullo schermo da Hitchcock - ebbe non poche difficoltà a pubblicare, riuscendo infine a farlo sotto pseudonimo, a causa del suo soggetto omosessuale in contrasto con la morale puritana dell'epoca.
Carol è Cate Blanchett, in un'altra delle sue superbe interpretazioni (solo pochi giorni fa l'avevamo ammirata in "
Truth"). Una donna altoborghese in crisi con il marito e con una bambina piccola, consapevole sin da giovane della propria omosessualità, la quale prova attrazione, ricambiata, per Therese (Rooney Mara, premiata al festival di Cannes per la sua stupenda interpretazione), giovane commessa del reparto giocattoli di un grande magazzino di Manhattan. Carol: caso vuole che il nome sia lo stesso della protagonista di "Safe" (1995), interpretata da Julianne Moore. In "Safe", Carol era una casalinga di un sobborgo californiano degli anni 80, la cui asettica esistenza veniva sconvolta dallo sprigionarsi psicosomatico delle represse frustrazioni sottostanti. Vent'anni dopo, l'attenzione di Haynes torna a focalizzarsi su un personaggio dal background analogo. E di mezzo c'era stato, nel 2002, "
Lontano dal paradiso", già ambientato negli anni 50, per il quale si era parlato di esercizio filologico sul melò con evidenti omaggi a Douglas Sirk e a R.W. Fassbinder. "Lontano dal paradiso" andrebbe valutato, a questo punto, anche alla luce di un preciso percorso autoriale di Todd Haynes; comunque, occorre sottolineare che l'aderenza al melò anni 50 di entrambi i film è solo questione di superficie. Fra l'altro, gli anni 50 di "Carol" sono diversi da quelli di "Lontano dal paradiso": come ha sottolineato lo stesso Haynes, qui siamo agli albori dei 50, quasi ancora nei 40. Più Haynes procede a ritroso nel tempo (come progressivamente sembra fare nella sua scarna filmografia), meglio sembra avvicinarsi al cuore pulsante di quel che cerca. Dagli anni 50 del film del 2002, gabbia dorata e "lontana dal paradiso" come da titolo, spostandosi più indietro, Haynes rintraccia qualcosa in più del bisogno di sottrarsi a un mondo di ipocrisie: il bisogno di libertà e di felicità, cercate in una dimensione esclusivamente femminile. Siamo appena all'alba degli anni 50, e Carol e Therese si affacciano già sulle rivoluzioni del decennio successivo. Non è davvero l'amore omosessuale a costituire il cuore pulsante del film, quanto l'emancipazione della femminilità in un contesto sociale opprimente, che riposa sulle finzioni.
Nel primo appuntamento fra le due protagoniste al ristorante, la sfasatura delle loro esistenze, fuori asse rispetto a se stesse, è sottolineata dal forte decentramento di campi e controcampi. Ogni movimento di macchina, nel film, è di una studiatissima eleganza formale che non è mai fine a se stessa. Altro che esercizio filologico. Si veda, più di ogni altra cosa, l'uso dirompente della macchina a mano riservato alla sequenza finale.
La messa in scena è sì delicata, estremamente controllata (Haynes è vicino a James Gray per attitudine e temperamento), ma è soprattutto costruita per sottrazione. Vive di emozioni trattenute. Cerca, come insegnava Bresson, di produrre emozione attraverso una resistenza all'emozione. Le emozioni vengono lasciate filtrare solo in alcuni momenti - sottolineati, in alcuni casi, da dissolvenze sonore che non lasciano percepire i dialoghi. Sempre sottraendo qualcosa, dunque. Momenti sospesi, accompagnati da lente frasi musicali. E il ricorso frequente a inquadrature attraverso vetri, a separare e dividere - stilema a dire il vero assai diffuso (e abusato) - indica trasparenze che, come tutta la patina stilistica, non sono solo un fatto di
décor. Non è solo questione di sospensioni, attese, dilatazioni. Non si tratta insomma solo di "ammantare le scene", come la neve che scende piano e mai a bufera. E' questione, anzitutto, di smorzare le emozioni. Infondere, nello spettatore, il desiderio sempre maggiore che la repressione dei sentimenti venga sconfitta, che le esistenze prendano a volare.
C'è un momento, quando a Natale Carol e Therese partono insieme per il loro viaggio senza un'autentica meta - quasi due novelle Thelma e Louise - in cui finalmente la musica è un lieto tema natalizio. Ma durerà poco.
Col procedere del film, Carol sembra farsi più fragile, mentre la timida Therese acquisisce maggiore sicurezza di sé. E' efficace in questo senso la metafora, calata con naturalezza nel personaggio, che passa attraverso la sua passione per la fotografia. La maturazione di Therese è, anche, una questione di capacità di inquadramento e messa fuoco: il suo percorso di identificazione personale passa attraverso la propria acutezza di sguardo.
Per Carol, essere donna invece è anche essere madre. E' ciò che la divide da Therese, e ne è pienamente cosciente. Da qui scaturisce il melodramma. "Non so quale possa essere il meglio per me, ma so di certo qual è il meglio per nostra figlia", dice Carol al marito che vuole sottrarle la bambina, in una scena estremamente toccante, preludio del finale in cui, finalmente, vanno lentamente a sciogliersi nodi a lungo trattenuti. Trovando sbocco in un intensissimo, memorabile primo piano aperto sul futuro.
Per saperne di più: La ricerca dell'identità e la potenza delle storie semplici: incontro con Todd Haynes23/10/2015