Film corale che segue le tracce del precedente "Valentine's Day", incrociando stavolta nell'ultimo giorno del 2011, le vite e i propositi di alcuni cittadini di New York, ciascuno coi suoi guai, ma tutti determinati a festeggiare il capodanno.
Per iniziare, mi cavo d'impiccio riportando le parole di un'ottenne presente in sala insieme a noi adulti. Qualcuno osserva che la sceneggiatura del film è stata scritta da Katherine Fugate e la bambina prontamente interviene: "Ma non aveva voglia di scriverlo questo film? Deve averlo scritto di fretta..." Beata e spietata innocenza.
Non c'è niente che non va nel restare in superficie. La superficie ha le sue complessità e aspetti interessanti da poter raccontare. Questo film, invece, per quanto imperniato sull'apparenza, non mostra neppure la volontà di soffermarsi in superficie, tantomeno si preoccupa di sviluppare un personaggio, approfondire un'emozione, un tema qualsiasi. E' come un lungo spot per il
rendez-vous di fine anno, la celebrazione consumistica per eccellenza che calamita newyorkesi (ad eccezione di Ashton Kutcher, alias Randy, ma solo prima di uscire dall'ascensore...) e un miliardo di telespettatori, all' "incrocio" più famoso del mondo. Dal 31 dicembre del 1907 la palla (allora di legno, illuminata da cento lampadine da 25 watt ciascuna, oggi sfera di cristallo Waterford strailluminata dalla Philips) scende a sancire l'avvento del nuovo anno.
"Capodanno a New York" è una commedia romantica priva di ironia e per nulla romantica. Un film senza idee, paternalista e ipocrita. Il capodanno è l'assoluzione alle colpe accumulate durante l'anno. Per magia tutti diventano migliori, filantropi accaniti che svendono valori come la bellezza e la speranza, di cui il capodanno newyorkese sarebbe esempio. Una vile mascherata. Proprio come l'accorato e commovente discorso di Claire Morgane (Hilary Swank) che, in realtà, serve solo per distogliere il pubblico di Times Square dal dramma della sfera bloccata.
La sfilata di stelle (Robert De Niro, Michelle Pfeiffer, Hilary Swank, Halle Berry, James Belushi) e stelline di provenienza mista fra cinema e televisione (Sarah Jessica Parker, Jessica Biel, Ashton Kutcher, Zac Efron, Sofia Vergara eccetera) è il solito modo dello zio Sam d'infiocchettare la fregatura. Per la cronaca, nel cast rientrano anche Jon Bon Jovi (Jeggens) che - con tutto il rispetto per il rocker che fu - si conferma garanzia di film di scarsa qualità e il rapper Ludacris (già attore in vari film tra cui "
Crash" di Paul Haggis ) che interpreta il poliziotto Brendan.
Il film è giustappunto un carrellata di facce note, cliché, storie melense e scontate, peraltro assemblate da un montaggio grossolano, a tratti imbarazzante. A situazioni di estrema banalità (vedi ascensore che si blocca, i due che si conoscono, bisticciano e si innamorano, vedi impiegata frustrata che si licenzia e ingaggia il giovane corriere perché l'aiuti ad esaudire i suoi propositi in cambio dei biglietti per una superfesta) e al glamour diffuso, si sommano rigurgiti di americanismo patetico, come nell'intervento del sindaco Bloomberg in persona, o nel caso della bella infermiera Aimee (Halle Barry) che indossa il suo miglior vestito per fare gli auguri tramite webcam al fidanzato lontano in "missione di pace".
Ovviamente tutto finisce bene. Kominsky (Hector Elizondo) ripara la sfera fulminata e la festa di Times Square procede, con tanto di corista (Lea Michele, alias Elise) che sostituisce la star Jeggens sul palco, nel pieno trionfo del "sogno americano". Il sollazzo del capodanno è ridimensionato soltanto dalla morte (non prima di aver esaudito l'ultimo desiderio) di Stan Harris (Robert De Niro) - del resto malato terminale e rifiutante ogni tipo di terapia - e dalla ragazzina quattordicenne Hailey (Abigail Breslin) che sorprende il suo ragazzino a baciarsi con un'altra. Un trauma adolescenziale peraltro subito superato da un bacio riconciliante. Non si può invece riconciliarsi con un film del genere. Parafrasando Niccolò Ammaniti: c'è più vita e verità in un acquario.
Prima dei titoli di coda, una carrellata di errori sul set. L'intento forse è quello di chiudere con una risata, l'esito al contrario, complice il doppiaggio, è una tortura e la certezza che l'errore più grande siano le due ore precedenti.
24/12/2011