Normalizzare, rendere convenzionale ciò che all'apparenza non lo è, ritrarre persone e situazioni paradossali con lo spirito di annetterli a una quotidianità a suo modo regolare. Il cinema dei fratelli Farrelly ha seguito questo schema praticamente da subito, dalla demenzialità pura di "Scemo & Più Scemo" fino ai loro più grandi successi commerciali, misto di brillantezza verbale e aggressività tematica (citiamo giusto, non senza un pizzico di nostalgia, "Tutti pazzi per Mary" e "Io, me e Irene"). Per questa loro specifica abilità, anche in tempi di politicamente corretto, le loro migliori scorribande dietro la macchina da presa (che corrispondono anche alle pellicole più corrosive e oltraggiose) non subiscono nel tempo alcun sospetto di condanna morale.
La normalizzazione è anche quella caratteristica che ha poi contraddistinto le scelte da solista di Peter Farrelly, doppiamente premio Oscar nel 2019 con "Green Book" e lanciato verso una nuova carriera pienamente mainstream e assolutamente rispettosa dei nuovi, severissimi canoni etici di Hollywood, pronta ad esaltare operette morali in grado di cavalcare l'onda del sentire liberal-progressista e altrettanto reattiva nello stroncare quei film che escono da quel recinto disegnato da codici, consuetudini e tendenze del momento. Pur continuando a raccontare di diversità e di emarginazione, Peter è passato dal registro irriverente della commedia demenziale a quello istituzionale del dramma tout court.
E Bobby? "Campioni", che è il suo esordio in solitario in regia, è il primo tassello della sua nuova vita. Per questo, indipendentemente dagli effettivi meriti artistici dell'opera, una recensione appare doverosa. Innanzi tutto, va detto che, a differenza di suo fratello, Bobby ha preso meno le distanze dal suo passato, non ha rinnegato l'arte della commedia e ha deciso di muoversi in un terreno tutto sommato a lui familiare, anzi doppiamente familiare. Lo sport da una parte e il rapporto con i personaggi affetti da disabilità. Il tono del racconto di "Campioni" non ha nulla a che vedere con i lungometraggi realizzati in coppia con Peter: se lì il tentativo di inglobare la non normalità nell'ordinario avveniva attraverso un corto circuito per certi versi coraggioso, puntando sull'effetto di ilarità provocato dal paradosso di eventi comici demenziali e assurdi, qui il binario della vicenda è lineare e pienamente rispettoso. Ciò che però emerge, tra una sequenza e un'altra, tra uno scambio di battute e l'altro, è, però, una consapevolezza che merita un encomio: il cinema è fatto per mostrare, non per nascondere e la disabilità, in quanto caratteristica che è per sua stessa natura evidente, deve essere messa in scena come si farebbe con qualsiasi altro elemento che distingue un personaggio da un altro.
Farelly si muove su territori che sanno anche un po' di malinconia, per un cinema industriale solido che Hollywood ha praticamente dismesso negli ultimi vent'anni: la provincia del Nord degli Stati Uniti, il ceto medio alle prese con le difficoltà quotidiane, le relazioni interpersonali complicate eppure salvifiche. Nell'ormai irreversibile scissione fra cinema d'autore da una parte e cinema "commerciale" dall'altra, la commedia non sta attraversando un bel periodo Oltreoceano (se la passa decisamente meglio in Europa, dove i due filoni citati poco sopra trovano ancora diversi punti di contatto). "Campioni", per questo, sembra un film uscito direttamente dagli anni 90, con il suo carico di straniamento dalle correnti più in voga al momento e con quel suo approccio profondamente "umanista" alla messa in scena della vicenda principale. La storia: un ex allenatore di basket di serie B, dopo una serie di passi falsi, viene incaricato dal tribunale di gestire una squadra di giocatori con disabilità intellettive. Ben presto si rende conto che, nonostante i suoi dubbi, questa squadra può andare più lontano di quanto abbia mai immaginato. E qui non può non essere citato il protagonista Woody Harrelson che, letteralmente, usa il soggetto del film per andare in scena con una sorta di monologo teatrale, libero da vincoli di interazione, senza particolari necessità di controllo del proprio stile. L'attore texano è la colonna portante di tutto il progetto e Farrelly, saggiamente, lo asseconda: la macchina da presa gli ruota attorno andandolo effettivamente a inseguire nei suoi cambi di passo, nelle sue trasformazioni espressive che richiedono un primo piano, nelle sue variazioni di tono che, spesso in passato, sono stati anche una sorta di maledizione per un professionista istrionico e particolarmente indisciplinato davanti all'obiettivo.
Dimentichiamo per un momento che "Campioni" sia l'ennesimo remake, che paghi l'inevitabile dazio al politicamente corretto e che questo costringa anche i pur gradevoli guizzi creativi a porre un freno alla provocatorietà delle battute. Ci rimane comunque, a fine visione, una sensazione piacevole di un viaggio nel tempo, una fugace occhiata a ciò che era il cinema che le major producevano e che indirizzavano a un pubblico molto vasto, fino a pochi decenni fa.
cast:
Madison Tevlin, Kaitlin Olson, Woody Harrelson
regia:
Bobby Farrelly
titolo originale:
Champions
distribuzione:
Universal Pictures
durata:
124'
sceneggiatura:
David Marqués, Javier Fesser, Mark Rizzo
fotografia:
C. Kim Miles
scenografie:
Sara McCudden
montaggio:
Julie Garces
costumi:
Maria Livingstone