Il cinema del terrore è sicuramente un comparto della settima arte che privilegia la forma, rispetto al contenuto. Dimostrazione, questa, che è sbagliato pensare che il fattore paura sia esclusivamente legato al tasso di sangue o di mistero inserito in una storia. Perché, di per sé, una storia è quasi mai spaventosa. Altrimenti tutti i casi clinici di un ospedale (anche non necessariamente psichiatrico) potrebbero esser letti come racconti dell'orrore. La paura, al cinema come nella letteratura, è frutto dell'attento assemblaggio di diversi frammenti che, selezionati attentamente dalla totalità del materiale narrativo e filtrati attraverso precisi accorgimenti stilistici, svelano (o nascondono) progressivamente la causa originaria. Ed è solo da questo delicato procedimento di pura costruzione formale che derivano il fascino e la tensione. "Probabilmente una storia vera alla Psycho non sarebbe stata per nulla emozionante, solo terribilmente clinica"[1]. Lo diceva Hitchcock, il maestro indiscusso della suspance sul grande schermo, il padre del modello antonomastico della paura cinematografica, colui che ha reso il proprio percorso artistico un laboratorio sperimentale di forme, tecniche e illusioni che attraversa tutta la storia della settima arte: dal muto al sonoro, dal bianco e nero al colore, dal piano sequenza al montaggio forsennato. Ora, si dirà: cosa diamine hanno a che fare tutti questi preamboli con il film in questione? Più di quanto sembra. E per due motivi. Il primo: William Friedkin è, insieme a Brian De Palma, il più dotato discepolo del maestro Hitch, nonché un esperto cultore del suo cinema. Il secondo: "Bug" è, sul solco di "Psycho", un eccellente horror da camera che, grazie alla sua infallibile strutturazione, terrorizza con l'invisibile.
Per la prima volta, Friedkin utilizza un'opera teatrale del premio Pulitzer Tracy Letts (sceneggiatore anche del capolavoro "Killer Joe") come base di sviluppo. Forte dello spessore e della solidità di questo telaio verbale, comincia a dar forma all'impianto visivo. Basta poco (un'ipnotica panoramica crepuscolare) per farci immergere nella quotidianità di Agnes, la protagonista della vicenda che vive la sua solitudine in una squallida stanza di motel. Suo figlio è scomparso dieci anni prima e il feroce ex-marito la perseguita, appena uscito di prigione. Il fortuito arrivo di Peter, giovane reduce della guerra del golfo con l'ossessione degli insetti, sembra portare nella sua vita uno spiraglio di calore umano. Purtroppo, in breve tempo, i deliranti assilli dell'amante vengono condivisi - anzi "assorbiti" - anche da Agnes, destinata a sprofondare, insieme a Peter, in una voragine di sangue e follia.
All'inizio della recensione, si è fatto riferimento al modello costitutivo del thriller-horror post-hitchcockiano. Ebbene, la grandezza della regia di William Friedkin sta nell'attualizzazione di quel modello e nell'adeguamento dello stesso alla propria visione del cinema e della realtà. Nel cinema del cineasta di Chicago, di fatti, è sempre ben evidente un fil rouge che allaccia la finzione scenica a un più ampio panorama sociale. I suoi personaggi tendono a vivere in situazioni di disagio, di totale abbandono, proprio come Agnes che cede alle folli argomentazioni di quello che una notte prima era un emerito sconosciuto, senza opporre la minima resistenza. Anzi, è proprio lei che, in lacrime, gli implora di restare. Perché, sebbene abbiano parlato sempre e solo di insetti, "ho parlato più tempo con te che con qualsiasi altra persona nella mia vita", parole sue. Ed è in questo solco che s'inserisce lo sconforto, il disadattamento, la solitudine di una donna afflitta che non ha scampo, né scelta.
Inoltre, un forte elemento di modernità è anche costituito dall'innesto di un concetto molto caro al cinema di genere contemporaneo: la tematica del contagio. Agnes è letteralmente contagiata da Peter non solo perché è convinta che lui le abbia trasferito degli afidi sottocutanei in forma di malattia venerea, ma soprattutto perché condizionata psicologicamente a entrare nella sua realtà illusoria. E quindi il contagio non provoca trasmutazioni fisiche mostruose come nell'opus cronenberghiano (l'unico mutamento è infatti nella definizione dei ruoli dei singoli personaggi), ma si svela nella paura irrazionale di un'entità incorporea e impercettibile. In questo senso, anche il terrore, nella prima parte del film, è solo suggerito, indotto da pochi, inquietanti presentimenti, in linea con un altro principio hitchcockiano secondo cui "l'orrore va suscitato nella testa dello spettatore, senza metterlo necessariamente sullo schermo"[2].
È solo nel frangente finale che la paura si avvera, ma proprio per mano delle due "vittime" che costruiscono un micro-inferno domestico, foderando di fogli d'alluminio l'angusta camera di motel di Agnes, illuminata solo dal gelido, accecante barlume azzurro dei neon antinsetto. Così quella squallida stanza, unico spazio scenico quasi per l'intera durata dell'opera, diventa la concretizzazione speculare della mente malata di Peter, sulle cui pareti lucide e accartocciate si riflettono le forme distorte della realtà, come su un enorme specchio deformato. Ed è proprio a causa di questa percezione fallace che del sangue viene versato, all'improvviso e senza rimorso, prima che i due amanti completino la metamorfosi e si congiungano in un ultimo, ampio abbraccio infuocato, a suggellare un amore morboso, paranoico e, forse, puro.
Il film però non si esaurisce con i titoli di coda: il regista continua a spargere fulminei frammenti delle insostenibili sequenze precedenti. Un invito a rivedere, ripensare, ricomporre un'opera splendida e disturbante che continua a crescere sotto pelle, inarrestabile, proprio come gli afidi dopo lo schiudersi delle loro uova.
[1] intervista di Ian Cameron e V.F. Perkins, pubblicata su "Movie", n.6, pp. 4-6, 1963
[2] intervista di Huw Wheldon, pubblicata su "The Listener", pp. 189-90, 6 agosto 1964
cast:
Harry Connick Jr., Lynn Collins, Michael Shannon, Ashley Judd
regia:
William Friedkin
titolo originale:
Bug
durata:
102'
produzione:
Kimberly C. Anderson
sceneggiatura:
Tracy Letts
fotografia:
Michael Grady
scenografie:
Franco-Giacomo Carbone
montaggio:
Darrin Navarro
costumi:
Peggy A. Schnitzer
musiche:
Brian Tyler