Preceduto da "Occupied City" il nuovo film di Steve McQueen sembra nascere come reazione al penultimo lavoro del regista inglese. Ambientato nella Londra del 1940, quella messa a ferro e fuoco dai bombardamenti della famigerata Luftwaffe, l'aviazione militare tedesca che tanto contribuì alla riuscita della cosiddetta "guerra lampo", "Blitz" (almeno all'inizio) non si perde in chiacchiere portandoci nell'inferno di fuoco causato dall'azione dei bombardieri nemici non prima di aver contestualizzato il periodo storico con una veloce didascalia che oltre a fissare il periodo dei fatti si prende briga di spiegare allo spettatore il significato etimologico della parola scelta per dare il titolo al film.
La volontà del qui e ora con cui McQueen decide di romanzare la Storia, ricostruendola con la dovizia di particolari tipica dei film in costume, sembra quasi volersi vendicare della priorità del fuoricampo di "Occupied City" in cui la Amsterdam occupata dall'esercito nazista veniva rievocata per interposta persona, senza ricorrere ai materiali d'archivio e con le immagini della città dei nostri giorni volte a suggerire una continuità dei fatti di ieri con quelli di oggi.
Pur rimanendo fedele all'idea di un cinema capace di mettere in discussione la Storia ufficiale, rileggendola dal punto di vista degli umiliati e offesi, il regista inglese decide di rinunciare al proprio côté artistico e, dunque, alla capacità della componente visiva di farsi carico di ciò di cui non si può parlare per gettarsi a capofitto in un racconto di guerra realizzato in modo da corrispondere nella maniera più fedele possibile al modo di pensare e di guardare il mondo di personaggi vissuti quasi un secolo fa.
Per farlo McQueen rinuncia alla metafisica del racconto che era stata il punto di forza di war movie come "Dunkirk" e "1917" (pensiamo al rovesciamento operato da Christopher Nolan che fa della guerra il personaggio principale del suo film e a Sam Mendes, capace di rileggere il primo conflitto mondiale alla luce della bellicistica contemporanea, immaginando le azioni delle artiglierie nemiche con un impatto simile a quello delle nuove tecnologie impiegate sui campi di battaglia contemporanei) a favore di una messinscena che esaurisce sé stessa nella saturazione dell'elemento visivo e dialogico.
Al contrario di altre volte McQueen crede così poco alla possibilità d'astrazione dello strumento cinematografico da sentire il bisogno di puntellare ogni fotogramma con un'overdose di informazioni che finiscono per togliere ai personaggi la propria autonomia.
Un'evidenza che risalta soprattutto nel pensiero che sta dietro alla costruzione narrativa, poggiata su un percorso ad ostacoli - simile a quello dei videogame - dove il ritorno a casa del piccolo George (fuggito dalla campagna in cui la madre l'ha spedito per evitargli i rischi dei bombardamenti nemici) diventa occasione per inanellare una moltitudine di "sfortunati eventi" raccontati come si farebbe in una serie, con le tappe del viaggio scandite da altrettanti racconti autoconclusivi.
Steve McQueen adotta dunque un modello popolare in linea con le premesse del progetto a cui però viene a mancare la durata necessaria per un'efficace resa drammaturgica. Costretto a condensare la vicenda in meno di due ore la progressione di "Blitz" è tutta esteriore, legata a una ripetizione dei fatti che non riesce a essere accompagnata da un adeguato sviluppo psicologico dei personaggi qui ridotti a pedine nelle mani di un demiurgo esterno.
Abituato a raccontare personaggi fuori dagli schemi, McQueen non si smentisce neanche in questa occasione perchè tutti i protagonisti, nessuno escluso, portano sulla propria pelle le stimmate di una diversità che nei film del regista inglese sono da sempre motore della storia. A differenza di altri lavori, però, in "Blitz" tutto è destinato a rimanere in superficie come spunto per tratteggiare un racconto tanto edificante quanto enfatico (per l'insistenza con cui il regista continua a frapporre ostacoli tra George e la sua meta) in cui all'autore sembra interessare più che altro il sottotesto razziale e autobiografico (il bambino è figlio dell'amore tra Saoirse Ronan e un ragazzo nero), in cui la visione progressista del mondo è destinata a trionfare non prima di aver fatto i conti con una sfilza incredibile di soprusi e discriminazioni. In questo senso poco possono fare in termini di emozioni la pur brava Ronan e, in un ruolo che sarebbe piaciuto a Charles Dickens, il giovanissimo Heliot Heffernan; per non dire di Paul Weller tornato sul grande schermo per interpretare un personaggio che si perde lungo il percorso della storia. La decisione da parte di Apple di farlo uscire direttamente in piattaforma potrebbe essere anche la conseguenza di una riflessione sulla debolezza del film.
cast:
Saoirse Ronan, Elliott Heffernan, Harris Dickinson
regia:
Steve McQueen
distribuzione:
Apple TV
durata:
114'
produzione:
Apple Studios, Regency Enterprises, New Regency, Working Title Films, Lammas Park
sceneggiatura:
Steve McQueen
fotografia:
Yorick Le Saux
scenografie:
Adam Stockhausen
montaggio:
Peter Sciberras
musiche:
Hans Zimmer