Nel momento in cui scrivo, il film in questione ha sostanzialmente sorpassato per tre volte il ben più blasonato "
Inception" nel box-office italiano relativo al weekend scorso (si parla di 3 milioni a uno di incasso). E l'errore più grossolano sarebbe quello di considerare perciò "Benvenuti al Sud" alla stregua di un cinepanettone con l'uscita anticipata e la risposta di pubblico leggermente più ridimensionata. Ma sarebbe anche questo "ragionare per
cliché".
Quindi il film di Miniero, più che
remake diciamo "rivisitazione" spaghettomandolino del francese
"Giù al Nord" (postilla: curiosa la proposta di titolo italiano che congiunge sia l'originale francese "Bienvenus chez les Ch'tis" che quella tradotta), a conti fatti ce la mette in saccoccia pure a noi.
O meglio, a chi pensa che, siccome si tratta di una commedia italiana, e siccome si tratta di una commedia italiana costruita sui clichè, si finirà irrimediabilmente per finire risucchiati in un vortice di banalità, gag scontate, dialoghi annacquati e happy-end di infima lega.
D'altronde, i più (brrr) "autoriali" Veronesi e Brizzi da questo punto di vista ci hanno abituato abbastanza male, direi.
E invece si esce dal cinema col sorriso sulle labbra di chi non è andato sicuramente alla pretesa né alla ricerca del capolavoro e s'è trovato sullo schermo una commedia intelligente, ben costruita, pronta ad accelerare sul grottesco quando serve per far risaltare al meglio l'effetto comico (le scene si sprecano: la gag della carrozzina, i preparativi pre-partenza di Bisio, la superba ed esilarante carrellata nel "ricostruito" quartiere di Castellabbate dove si inscena una cinematografica rappresentazione dei luoghi comuni del Sud Italia), disposta a scivolare (ma il minimo possibile) sul retorico per accontentare chi da questo tipo di film vuole l'esaltazione dei buoni sentimenti, per poi invece innalzarsi dalla media dei prodotti/paccottiglia nostrani con una sceneggiatura briosa, asciutta e piena di battute se non memorabili quanto meno simpatiche ("Sud Italia? Ma tipo Bologna?", "Andiamo in un posto bellissimo, Chateaux de la Baix", "E adesso cos'ha detto sto tipo? Eh, dottò, questa non l'ho capita nemmeno io"). Roba che, anestetizzati da anni e anni ricorrenti di gag scatologiche e doppi sensi penosi, ci risulta persino inaspettata.
L'andamento della storia riprende sostanzialmente quella del già citato originale transalpino, inclusi gli spaesamenti linguistico/dialettali (resi qui dal personaggio di Salvatore Misticone), la caratterizzazione "a macchietta" degli autoctoni coi quali il protagonista si scontra e poi incontra (e nei quali ritroviamo quel Giacomo Rizzo che anni fa Sorrentino aveva salvato dall'oblio delle commedie sexy facendolo diventare infimo - e perfetto - strozzino), l'abile gioco di riappropriazione dei clichè ad uso comico, equilibrando e smorzando i toni (per ogni campano che urla, gioca a calcio e beve caffè, c'è un lombardo che fa le ronde, non dice parolacce e si mette il corsetto antiproiettile).
Il finale poi, complici anche le buone interpretazioni di Bisio e - soprattutto - dei comprimari, non stucca e, più che di un intento didattico, si fa portatore di una morale antiretorica e antimoralista.
Proprio come per il film: basta poco, che ci vuole.
07/10/2010