Slab city: in una località desertica a trecento chilometri a sud di Los Angeles e a quaranta metri sotto il livello del mare (da cui il titolo del film), un gruppo di homeless, fuggiti dalle logiche del capitalismo statunitense, ricrea una comunità in cui si inserisce Gianfranco Rosi, al secondo documentario dopo "Boatman", realizzato circa quindici anni prima. Il lungometraggio alterna monologhi e conversazioni degli abitanti di questa collettività, filmati soprattutto all’interno dei loro veicoli-abitazioni, a riprese della località e delle attività quotidiane di chi ci abita. Le abluzioni nel fiume, il realx sull’amaca realizzata con materiali di scarto, la pulizia del posto in cui passare la notte intervallano e scandiscono le interviste-confessioni attraverso cui il regista porta lo spettatore a conoscere i sette personaggi, due coppie e altri tre, su cui si concentra il film. Rosi, dunque, conferisce al proprio documentario una forte strutturazione sia attraverso il montaggio, ovvero tramite l’alternanza di riprese in interni, dedicate alle conversazioni degli homeless, e di campi medi e lunghi, finalizzati a mostrare le interazioni fra questi ultimi e il luogo in cui si trovano; sia tramite la progressione narrativa di alcuni nuclei tematici, come la creazione della canzone di Mike e, soprattutto, la conoscenza dei personaggi, sui quali spiccano le dinamiche relazionali delle due coppie, vero centro del film.
Prendendo in considerazione le categorie tassonimiche descritte da Bill Nichols, Rosi realizza un documentario in bilico fra la "modalità di osservazione" e quella "partecipativa". Alla prima appartengono l’assenza di «commento fuori campo, senza musica aggiunta o effetti sonori, senza intertitoli ne’ ricostruzioni storiche, senza ripetizioni di scene per la cinepresa» (1), fondato su «l’atto di guardare gli altri mentre svolgono i propri compiti» (2) ottenuto grazie a «l’impressione che la presenza del regista non intralci il comportamento degli altri» (3) e dove quest’ultimo «adotta un modo particolare di essere presente sulla scena, scegliendo di apparire come invisibile ed esterno agli eventi» (4). Alla seconda, invece, fa capo il fatto che «il regista va sul campo, partecipa alla vita degli altri, acquista un sentimento concreto o intimo di come sia la vita in un dato contesto» (5). Rosi, infatti, si reca a Slab city da reietto, realizzando un processo di forte identificazione tra se stesso e gli abitanti del luogo, come rivela in un intervista: «Ci sono andato, ma con un profondo senso di sconfitta, perché un film nel quale avevo investito tre anni della mia vita era svanito e dovevo ricominciare a filmare una nuova storia. È stata molto dura. […] Alla fine anche io sono diventato uno di loro» (6). Il processo di osservazione e partecipazione alla comunità nel deserto si concretizza in un periodo di riprese di circa quattro anni, come sostenuto da Rosi nell’intervista rilasciata a Maria Giovanna Vagenas, un tempo lunghissimo in cui il regista si inserisce profondamente nella realtà che filma, costruendo dei rapporti «di amicizia e rispetto reciproco» (7) con i futuri personaggi.
Da questo punto di vista "Below Sea Level" è un documentario in senso "classico", dato che aderisce sia alle categorie tassonomiche definite da Nichols, sia allo "statuto ufficiale" di tale forma fimica descritta da John Grierson: «osservare e selezionare gli avvenimenti della vita vera […], portare lo schermo nel mondo reale […] la materia e i soggetti trovati sul posto siano più belli (più reali in senso filosofico) di tutto ciò che nasce dalla recitazione» (8). Si tratta dunque di una concezione del documentario come forma filmica avente un contatto diretto con il reale, scevro ciò da elementi finzionali. Tuttavia, questi ultimi sono ben presenti in questo lungometraggio: in primo luogo vi è la presenza, descritta poco sopra, di piccoli nuclei drammaturgici, come i racconti dei rapporti fra le coppie (Kenneth e Lili, Wayne e Carol) che sfociano in angoscia e conflitti, la creazione della canzone di Mike e la progressiva scoperta del passato dei vari abitanti di Slab city. Tramite il montaggio viene creato un abbozzo di strutturazione in capitoli, intrecciando i diversi nuclei drammaturgici, oltre a tre distinti leitmotive: uno sonoro (la canzone), uno visivo (il paesaggio desertico in cui si trova la comunità) e uno narrativo (la storia del passato dei singoli abitanti e del presente delle coppie).
In secondo luogo, i sette individui dei quali ci viene presentata la storia vengono stereotipizzati e, in tal modo, ridotti da persone reali a personaggi. Quest’ultimo concetto, come scrive Simone Morandi, «da sempre scandisce la separazione tra l’attore e il ruolo che ricopre ma, nel caso del soggetto che agisce nel documentario, si ripropone come termine chiave rivelatore poiché è chi si ritrova dinanzi al dispositivo di ripresa che reagisce a tale presenza attuando un’auto rappresentazione di sé» (9). Si tratta di istrionismo: gli individui filmati finiscono per recitare loro stessi enfatizzando il modo in cui si auto-rappresentano agli altri, come testimonia il testo della canzone di Mike («mai stati capaci di inserirci sui binari della società… ma ci piace qui e non torniamo indietro.. è la nostra città nascosta nel deserto, un posto per chi cerca la libertà»). Questa dinamica viene accentuata da Rosi che sceglie di realizzare delle interviste-confessioni: non vengono poste domande agli individui che popolano la comunità di Slab city, il regista è assente e si limita a filmare i monologhi dei singoli o i dialoghi fra le coppie, realizzando ciò che Daniele Dottorini denomina "doppio ritratto", ovvero l'auto-«ritrarsi del soggetto nel momento stesso in cui viene ritratto dalla macchina da presa. […] A volte il soggetto riesce a costruire la propria immagine con una forza che sfugge al controllo dello sguardo registico. […] diventa personaggio e regista al tempo stesso orienta lo sguardo e lo dirige. Il soggetto si espone fino a dipingere egli stesso il quadro» (10). D'altra parte, Rosi stesso si rende conto che i personaggi recitano, come sostenuto in diverse interviste «pian piano hanno iniziato a mettere in scena se stessi e la propria vita recitando, in un certo senso, la loro realtà» (11); «posso aver passato mesi e mesi con un individuo, mangiando e bevendo con lui, però quando gli metto la macchina davanti, si trasforma in attore di se stesso, diventa altro, è una messa in scena. Non c’è bisogno di dare indicazioni su cosa dire o fare, la persona diventa personaggio e il racconto diventa cinema» (12). Dunque tale stereotipizzazione viene perseguita coscientemente dal regista, il quale sollecita certe reazioni da parte degli individui mentre vengono filmati e seleziona il girato al fine di far coincidere la rappresentazione filmica con l’impressione che si è fatto delle persone che ha conosciuto. La prima dinamica viene confermata dalle stesse parole di Rosi: «Mike aveva un’ossessione con le mosche, così ho iniziato a lavorare su questo soggetto, a cercare delle informazioni […] mi preparo delle domande, faccio degli studi, delle ricerche sulle persone e poi le indirizzo verso un percorso» (13), arrivando così alla realizzazione di una delle prime interviste-confessioni presenti nel film, quella in cui il personaggio citato parla di questo insetto. La seconda dinamica, invece, viene definita da Zonta una «selezione emotiva e mnemonica del materiale» (14), cioè la formazione di un’impressione personale sugli individui filmate: «le prime sensazioni che hai su qualcuno sono sempre quelle più vere. Lì succede qualcosa di molto forte e il mio compito è tradurre quelle emozioni; il mio dovere è far sì che la verità del personaggio corrisponda a una verità interiore o a ciò che io penso sia la sua verità interiore, un ritratto […] Dov’è la verità nel documentario? Secondo me è nella verità interiore dei personaggi che stai raccontando» (15); a cui segue, in fase di post-produzione, una selezione del girato finalizzata alla convergenza di impressioni personali e rappresentazione filmica: «riguardando le riprese ricordavo perfettamente certe scene e certi momenti, come se li avessi scelti emotivamente nel momento in cui giravo. Nella selezione del materiale che si fa sempre prima di iniziare a montare, emergevano naturalmente solo le cose importanti e questo processo accadeva attraverso un rapporto molto forte con la memoria» (16).
In terzo luogo, il regista tende a fornire una rappresentazione degli abitanti di Slab city che rimanda a (e che quindi appiattisce l’essere umano filmato su) archetipi narrativi, in particolare a una certa parte della letteratura americana incentrata sui reietti del sistema, di coloro che vivono la negazione, o il requiem, del sogno americano, come nei romanzi di John Fante e Nelson Algren. In un’intervista, Rosi sostiene: «mi sono reso conto che i sette personaggi alla fine erano una sorta di archetipo, un soggetto unico con tante personalità» (17), mentre descrive a Zonta il proprio film come «un inno alla libertà»(18) e la località come «l’ultimo avamposto della libertà individuale, è il Far West, sono davvero degli Argonauti» (19).
Concludendo, "Below Sea Level" costituisce uno dei primi esempi di commistione fra finzione e documentario, sia per la filmografia di Rosi che per la recente produzione italiana denominata "cinema del reale", di cui il regista costituisce uno degli autori maggiormente significativi, definita da Christian Uva e Vito Zagarrio un «nuovo prodotto ibrido tra docu e fiction» (20). Questa forma eterogenea è stata in seguito approfondita non solo dallo stesso Rosi, ma caratterizza anche molti degli autori italiani che maggiormente hanno sperimentato, riprendendo le parole di Daniele Dottorini, «il rapporto sempre più stretto tra due pratiche, l’osservazione e la creazione» (21), come Roberto Minervini e Pietro Marcello.
(1) B. Nichols, Introduzione al documentario, Il Castoro, Milano, 2006, p. 116.
(2) Ivi, p. 117.
(3) Ivi, p. 118.
(4) Ibidem.
(5) Ivi, p. 122.
(6) D. Zonta, L'invenzione del reale. Conversazioni su un altro cinema, Contrasto, Roma, 2017, p. 21.
(7) M. G. Vagenas, Intervista a Gianfranco Rosi. Con Below sea level sbaraglia Parigi, in "Schermaglie", 26 aprile 2009.
(8) A. Bignami, Il documentario. Scrivere, realizzare e vendere cinema della reltà nell’era dell’artificio, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 7-8.
(9) S. Moraldi, Questioni di campo. La relazione osservatore/osservato nella forma documentaria, Bulzoni, Roma, 2015, p. 175.
(10) D. Dottorini, La forma del ritratto cinematografico, in "Fata Morgana WEB", 16 settembre 2017.
(11) M. G. Vagenas, Intervista a Gianfranco Rosi, cit.
(12) D. Zonta, L’invenzione del reale, cit., p. 29.
(13) M. G. Vagenas, Intervista a Gianfranco Rosi, cit.
(14) D. Zonta, L’invenzione del reale, cit., p. 29.
(15) Ivi, p. 16.
(16) Ivi, p. 24.
(17) M. G. Vagenas, Intervista a Gianfranco Rosi, cit.
(18) D. Zonta, L’invenzione del reale, cit., p. 24.
(19) Ibidem.
(20) C. Uva, V. Zagarrio, Gli scenari della contemporaneità, in C. Uva, V. Zagarrio (a cura di), Le storie del cinema. Dalle origini al digitale, Carocci, Roma, 2020, p. 42.
(21) D. Dottorini, Il "cinema senza nome". Lo sguardo documentario del nuovo millennio, in A. Cervini (a cura di), Il cinema del nuovo millennio. Geografie, forme, autori, Carocci, Roma, 2020, p. 91.
regia:
Gianfranco Rosi
durata:
110'
sceneggiatura:
Gianfranco Rosi
fotografia:
Gianfranco Rosi
montaggio:
Jacopo Quadri