Continua la passione di Kim Ki-duk per il lato oscuro dell'universo femminile. In questo caso autore del soggetto e produttore, Kim Ki-duk ci offre una generosa visuale sulle sue ossessioni al femminile, già abbondantemente esplorate nei precedenti "
Time" e "Breath".
Vincitore del Grand Prix al Fukuoka Asian Film Festival di quest'anno e selezionato per Berlino, questo "Beautiful" racconta dell'altra faccia della società dell'immagine, dove la bellezza può uccidere anche chi ce l'ha e non solo chi la insegue attraverso le diete e la chirurgia estetica.
Eun-yeong è un'ideale prosecuzione delle protagoniste del maestro, il quale affida il suo racconto originale all'allievo Juhn Jaihong, che lo ha assistito alla regia dei suoi ultimi due film.
Non è, però, solo di bellezza che si parla alla fine in questo film, ma piuttosto di follia. Il risultato ultimo delle ossessioni di chi guarda e decide di voler possedere la bellezza è quello di generare altre ossessioni, ancor più letali di quelle che le avevano scatenate.
Eun-yeong è circondata da gente che dice di amarla, ma che non la conosce neanche. Gente che la vuole proteggere, ma non si sa da chi, se non dalle stesse persone che dichiarano il loro amore ad un involucro giudicato vuoto in primo luogo da chi la vuole possedere.
La follia di una società che elegge la bellezza ad archetipo e distrugge chi la possiede, attraverso il desiderio stesso degli altri di appropriarsene, aleggia in tutto il film. E solo la risposta folle di Eun-yeong sembra chiudere il cerchio, in una spirale di incomunicabilità; tema questo assai caro al maestro, ma affrontato solo in parte dall'allievo.
Ed è forse questo il solo punto debole di un lavoro i cui presupposti sono in verità assai interessanti.
Sia pure ispirata all'estetica di Kim Ki-duk, la rappresentazione appare alla fine leggermente di superficie. Il tutto non riesce ad andare oltre lo stereotipo, dalla zuffa tra i soccorritori per chi deve portare all'ospedale la povera Eun-yeong, fino al sotto finale che per la verità rappresenta una caduta di tono non da poco. Peccato perché l'interpretazione di Cha Soo-yeon eleva il tono della rappresentazione con le sole espressioni di dolore su un volto bello in verità, ma molto più interessante quando diviene preda della follia.
Purtroppo non si riesce neanche per un momento a smettere di chiedersi come sarebbe stato il tutto se a girare fosse stato il maestro. Dal momento che la poetica di una fuga dalla vita, raccontata in altri casi con una maestria senza pari, qui sembra sempre soltanto sfiorata. Non è mai stata la bellezza il vero tema delle ossessioni di Kim Ki-duk, ma curiosamente Juhn Jaihong non sembra cogliere fino in fondo il suo messaggio. Non può non essere evidenziata tutta la critica ad una società che inventa sempre nuovi modi per colonizzare il pensiero e definire lo stile di una persona, a partire dall'estetica per finire alle ossessioni alimentari, vero problema di ogni società capitalistica che si rispetti. Kim Ki-duk ha scritto una storia che parla di quello che succede a chi non riesce a stare al passo con le regole della società in cui vive. Ma noi, disgraziatamente, vedremo solo quello che succede ad una donna che non riesce a superare una violenza inflittale solo perchè al di sopra dei canoni di una normalità riconosciuta da tutti.
08/01/2009