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recensione di Pietro S. Calò

Una donna scalza corre lungo una strada buia su cui le rare macchine passano a tutta velocità senza fermarsi. Improvvisamente, è raccattata dalla Jaguar di Mike Hammer (Ralph Meeker) e ha così inizio un’avventura al crocevia del noir, del melodramma e della fantascienza apocalittica.
 

Il quinto film di Robert Aldrich sembrava una sorta di consacrazione: dopo il buon successo di "Vera Cruz" (1954), gli viene data l’opportunità di scegliersi un soggetto e lui punta sicuro su Mickey Spillane, uno scrittore che non ama, "fascista e antidemocratico", ricorderà più tardi.
Tale disprezzo è la fortuna del film, da cui "Fat Bob" riesce a precisare la giusta distanza che pare l’unico rimedio al suo stile un po’ ingombrante, alla sua poetica un po’ sovraffollata. La consacrazione, comunque, è ambigua, non proprio una brillante riga di curriculum: Aldrich, dopo essersi fatto le ossa con il Renoir americano, con Fleisher, Losey e addirittura con Charles Chaplin, è promosso a firmare buoni film a basso budget, una carriera assicurata di poca gloria e tantissimo lavoro sul set.
Dovrà arrivare il genio (critico) di Truffaut a rendergli una giustizia che per molti resterà relegata al film in questione che comunque, all’unanimità, è ancor oggi considerato il suo migliore.
In effetti, oltre a essere un film avvincente e pieno dei giusti colpi di scena, è anche una sorta di paradiso per l’analista, ricco com’è di trovate, incroci narrativi, arditi movimenti di macchina, raccordati da un montaggio da manuale.
Basti vedere la prima sequenza.
In un nero di pece su cui sono distinguibili nettamente le linee bianche della carreggiata, corrono due piedi nudi con sopra un impermeabile. Procedono dritti e spediti ma l’affanno aritmico che rappresenta la banda sonora lascia immaginare che qualcuno sta scappando da qualcosa verso qualcos’altro di impreciso e di ancora peggio, una fuga irrazionale e terrorizzata. Un paio di macchine evitano quel corpo sicuramente femminile come fosse peste e corrono via terrorizzati anche loro. L’affanno si fa sempre più aritmico, fin quasi la rottura. La decappottabile di Hammer eviterebbe decisamente lo stop se solo la donna non si mettesse in mezzo come un vigile urbano che lo costringe a fermarsi. L’affanno si mescola al terrore e sale ma, invitata a entrare, parte dallo stereo "I'd Rather Have the Blues" di Nat King Cole; l’affanno si smorza e fonde in lacrime. Si chiama Christine (Cloris Leachmann) e forse è una matta. Scorrono, a rovescio, i titoli del film.

Un saggio di bravura che, come detto, fu subito riconosciuto dal genio (critico) di Truffaut e di cui, ancora più, si ricorderà Godard quando, alcuni anni dopo, stupì tutti con il suo esordio ("À bout de souffle", 1959, ancora Le souffle, il respiro, à bout, in crisi, protagonista). Aldrich, infatti, ricordato normalmente per un suo presunto e invasivo "stile barocco", ha una poetica decisamente più complessa di cui le scene di massa, le messe in quadro sature e i vertiginosi movimenti della cinepresa in spazi improbabili sono solo l’aspetto più evidente, com’era la sua pancia rispetto all’intera complessione del suo corpo.
Figlio di banchieri, solo apparentemente non ha portato il suo DNA nell’arte del cinematografo: è stato invece un broker strarordinario, che ha investito nei siparietti, spesso giudicati con sufficienza, il denaro (il tempo) delle sue ellissi così sorprendenti che spesso fanno pensare ai jump-cut di Welles e di cui, ancora una volta, Godard farà tesoro prezioso.
Hammer, uomo d’azione e di pochi scrupoli, non impiega molto ad aver ragione dei suoi nemici e in tutte le sequenze di disputa ne vediamo sempre gli effetti e quasi mai le cause: egli è forte e conosce colpi letali, ma non li vediamo mai. Elencarli tutti sarebbe noioso e fuorviante poiché non si tratta solo di questo. Un secondo metodo di sintesi è la metonimia: il clima di tensione che avvolge tutto il film, che per molti versi resta indeterminata, è l’urlo. Urla Christine, subito dopo l’incipit; urlano i colpiti da pugni, coltellate, pistolettate; infine, urla pure La cosa, la scatola indefinita oggetto di una caccia infinita di cui, molto più tardi, si ricorderà il cinefilo Quentin Tarantino ("Pulp Fiction", 1994) e che nel romanzo di Spillane è solo un semplice carico di droga. Una ellissi metonimica è l’inquadratura bassa, le scarpe che, come le convenzioni sociali di una volta, dicono tutto della caratura sociale di chi le indossa e ci indicano senza tema di errore chi fa cosa tra gangster, poliziotti, avventurieri, faccendieri e scienziati, senza dover ricorrere all’infinita ri-presentazione dei personaggi e ai ping-pong dei campo-controcampo che costano tempo.
Le ultime due strategie di sintesi sono, naturalmente, il montaggio e i movimenti di macchina.
Come un Fausto Coppi (o un Pantani) d’assalto, Robert guadagna da subito la testa attraverso un montaggio serrato e a stacco improvviso. Poi si rilassa e accorcia i tempi di ellissi interna attraverso le dissolvenze incrociate che punteggiano sequenze più didascaliche, più raccontate. Riguardo i movimenti di macchina, la scuola di Renoir è evidente (anche se limitata all’aiuto-regia sul set di "The Southerner", L’uomo del sud, 1952). Le sue carrellate sono lunghe e ricorrenti ma soprattutto girate a focale corta o cortissima, che riescono a dare all’inquadratura una profondità di campo che esaurisce in un unico movimento un’azione complessa, sia in lungo sia in altezza, con dolly che si incuneano in spazi ristretti, siano essi scalinate, crocicchi o letti d’ospedale e in cui Robert utilizza la figura del dominante/dominato con le inquadrature in plongée e controplongée, nelle quali il buon Hammer è spesso sotto, in patente difficoltà.
Queste, insieme ai raccordi di sguardo, sono infatti produttivi non solo alla sintesi ma anche al tono emotivo del film. "Un bacio e una pistola", infatti, non è solo un ruvido noir girato con maestria ma anche un complesso gioco di personaggi legati tra di loro.
L’introduzione di Velda (Maxine Cooper), la segretaria di Hammer, è in plongée sfocato, al fianco di un’infermiera. È la soggettiva di Hammer, vivo per miracolo e sconfitto, infatti raffigurato in contro-plongée, che riprende conoscenza e forza grazie a quel binomio composto da una donna bellissima che è anche la sua "nurse", in una inversione retorica magistrale che mostra "il tutto" per significarne una sua qualità. D’altra parte, a dieci anni di distanza dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, è un ulteriore esempio di quella fortunatissima figura della "curatrice" sorridente e comprensiva, la metonimia di una guerra combattuta altrove e di cui restarono, a distanza di un decennio, uomini tornati a casa con ferite profonde o profondissime (vedi "E Johnny prese il fucile", film definitivo a questo riguardo).
E così, dopo tanta sintesi, Robert si concede i siparietti, comunque produttivi anche loro all’avanzamento della storia ma più indugiati, arricchiti di un carattere a volte macchiettistico che a molti fa storcere il naso. Sono disseminati qua e là nel racconto e, godibili anche oggi, li passiamo in rapida carrellata: hanno sempre come protagonista Hammer ("Uno che sa parlare tutte le lingue" – ci tiene a precisare lui stesso) in coppia con personaggi caricati di una qualche caratteristica, in special modo l’uso pittoresco della lingua. Ci riferiamo ai suoi dialoghi con Nick "Vavavoom", il suo amico greco, meccanico di fiducia; o a quello con il traslocatore italiano che, oltre a darci una informazione fondamentale, ci lascia anche una massima da trascrivere: "Tutti traslocano ma la mia casa è il mio corpo. Qui sono nato e da qui me ne andrò solo quando morirò". O a quello col sordido anatomo-patologo o, infine, al duetto col melomane italiano, Carmen Trivago (un nome, un programma) che ci canta un brano di Caruso (in playback, mentre scorre il prezioso 78 giri) e ci dà anche lui una informazione preziosa (al costo del suo preziosissimo disco).
Tali duetti, sceneggiati e recitati con una cura che è quasi enfasi, saranno la base ad almeno due capolavori di Robert: "Il grande coltello" (1955) e "Le foglie d’autunno" (1956).
Tra cattivi che sono meno duri di quanto possano sembrare, il boss Evello su tutti (Paul Stewart), l’uomo dalle scarpe di vernice (ma non lucide) o la "brava ragazza" che però ha fatto morire il suo uccellino, la bionda Gabrielle (Gaby Rodgers), si incastra la storia di un uomo cinico, sportivo, egoista, muscoloso, narciso e manesco e di cui Robert aveva pure pochissima stima ma che ha riprodotto fedelmente dal romanzo di Spillane e che si guadagna da vivere adescando mogli deluse e annoiate e facendosi assumere dal marito come investigatore privato divorzista. La bella, pigra e sensuale Velda fa esattamente la stessa cosa, a ruoli invertiti: due piccole canaglie in un vero e proprio manifesto dell’a-moralità. Finché non inciampano in qualcosa di più grande di loro che è una traccia, e la traccia diventa una pista, e la pista diventa una strada, e la strada… fossa.

Il finale del film è una piccola curiosità che vale la pena raccontare.
Fino a venti anni fa, ne circolava una versione monca, di quasi due minuti. Finiva cioè in un modo che, a chi scrive e a chi era con lui nel torrido cinemino della Rue des Ècoles, lasciò quantomeno perplesso. L’aggiunta, girata, ma di cui Robert non fu mai pienamente convinto, lascia un po’ meno d’amaro in bocca…


09/07/2016

Cast e credits

cast:
Marian Carr, Wesley Addy, Paul Stewart, Albert Dekker, Ralph Meeker


regia:
Robert Aldrich


titolo originale:
Kiss me Deadly


distribuzione:
United Artists


durata:
106'


produzione:
Parklane Pictures Inc.


sceneggiatura:
A.I. Bezzerides (dal romanzo di Mickey Spillane)


fotografia:
Ernest Laszlo


scenografie:
Howard Bristol


montaggio:
Michael Luciano


musiche:
Frank De Vol


Trama
Una donna scalza corre lungo una strada buia su cui le rare macchine passano a tutta velocità senza fermarsi. Improvvisamente, è raccattata dalla Jaguar di Mike Hammer. Forse è solo una matta, o forse no...