Ci volevano 12 anni per lasciar fare a Cameron il suo trionfale
comeback sulla scena dopo i fasti (un po' eccessivi) di "Titanic". Ci volevano le statuette dell'Academy per consacrarlo più che altro economicamente, e permettergli di realizzare finalmente il progetto cinematografico che covava dentro da una vita. Perché sì, Cameron è pur sempre quello che ha realizzato (anche) filmoni dal budget spropositato e dagli incassi milionari, ma liquidarlo come semplice mestierante da
blockbuster alla stregua di un Michael Bay qualsiasi è oggettivamente sbagliato, e non si fa fatica ad ammetterlo.
Il regista americano è stato piuttosto capace, ben prima di questo "Avatar", di abbinare alle megaproduzioni sfonda botteghino qualcosa in più, riflessioni meta-testuali (o anche solo testuali e basta) atte sempre a portare "un po' più in là" il discorso legato al genere di cinema con cui ha a che fare (si pensi a come ha rinnovato il concetto di fantascienza con "Terminator" o quello di kolossal
tout-court con "Titanic" stesso).
In questo caso, gli anni di lavorazione occorsi (quasi 15) e i soldi spesi (siamo attorno ai 200 milioni di dollari) per la realizzazione del suo ultimo, attesissimo lavoro parlano da sé, e basterebbero da soli a creare un clima di crescente fermento (poi ampiamente confermato) nei confronti dell'uscita di questo film. Se a questi aggiungiamo che buonissima parte del budget è stato impiegato nell'utilizzo di nuove tecniche di computer grafica, comprendenti soprattutto l'utilizzo della risorsa 3D non più come semplice espediente ausiliare (come accade nella maggior parte delle pellicole tutt'ora in circolazione) ma bensì come elemento primario di sperimentazione digitale (e ciò significa, per esempio, macchine da presa create
ad hoc per riprendere tridimensionalmente), ci viene spontaneo pensare quanto questa volta il cinema di Cameron abbia osato guardare in avanti, verso qualcosa oltre, verso il futuro (azzardiamo).
Naturalmente anche un'altra domanda sorge spontanea, allo stesso modo: quanto di questo è stato pensato in vista del probabile ritorno di pubblico? Quanto in considerazione del
battage pubblicitario che ne sarebbe derivato? Quanto in funzione del 3D (e del sovrapprezzo nel biglietto) come "un'imposizione" da vessare ai poveri spettatori per poter godere appieno (e funzionalmente) delle meraviglie del film stesso? In sostanza, se mai abbia ancora senso chiederselo: quanto è stata sincera l'operazione "Avatar"?
Risposta: al trecento percento. Ed è sincera, paradossalmente, proprio grazie all'artificio. Un po' come era successo a Jackson col "Signore degli anelli" (ma senza il contorno fiabesco che lo imprigionava), il mondo che Cameron e gli altri sceneggiatori mettono in scena è qualcosa che definitivamente non sarebbe mai potuto esistere senza la modernità della CG, senza il dispiegamento di forze utilizzato dai tecnici del Blue Sky Studios, senza la risorsa del digitale. Il mondo di Cameron, vale a dire il pianeta Pandora, è per l'appunto come il vaso da cui il nome deriva: solo che a sprigionarsi da esso è una varietà di creature, colori, paesaggi, dettagli, scenografie talmente ben studiate e realizzate che pensare anche solo per un attimo alla presunta pretestuosità dell'insieme diventa ridicolo.
È ovviamente un mondo, un "altro mondo", fatto a nostro uso e consumo certo, ma fatto non per essere solo guardato a livello estetico, attrazionale, bensì per essere
vissuto, cercando ogni tipo di interazione possibile con le sensorialità di chi lo osserva, puntando al 3D come unica via possibile per cercare (seppur virtualmente) di separare la barriera dello schermo fra queste due dimensioni. Che sia una molecola di ossigeno che si visualizza in primo piano, una foglia che ci ostacola la visuale o anche solo una mano alzata in mezzo alla folla, il 3D "riempie" in modo decisivo il vuoto che solitamente si instaura fra l'artificialità della messa in scena (computer) e la razionalità dell'occhio osservante (realtà).
Quando poi tutto questo si sposta addirittura da un livello "pratico" ad uno "concettuale" (e di solito è già tanto se ci si accontenta di arrivare al primo), viene davvero da pensare di essere dalle parti del capolavoro. Sì perché dietro "Avatar" c'è una riflessione sul cinema, sul
nuovo cinema, che va oltre il semplice gusto della spettacolarità visiva. C'è, insita nella storia del soldato Jake Sully, la rappresentazione di una dicotomia che cerca in qualche modo di ribaltare tutti i canoni finora convenuti: quelli che assegnavano al cinema "in CG" un ruolo secondario, di puro
intrattenimento, e al cinema "in carne ed ossa" il ruolo serio, istituzionale, di cinema
vero. Non a caso anche la Pixar, una delle case di produzione CG più innovative degli ultimi anni, sembra aver intrapreso questa strada: "
WALL•E" e
"Up" sono fulgidi esempi di un cinema
animato che vuole smettere di essere
d'animazione, come se il vestito cominciasse a farsi anno dopo anno sempre più stretto e inadatto ad un corpo in costante sviluppo (e guardacaso proprio quest'anno ecco un altro sdoppiamento/scissione con il ritorno alle origini, in 2D e non solo, de
"La principessa e il ranocchio").
Non fraintendiamoci: "Avatar" è soprattutto
entertainment e azione e scene di combattimento che manderanno in brodo di giuggiole i ragazzini e così via, ma al tempo stesso, come se non si accontentasse di ciò, cerca di spostarsi sempre più impercettibilmente verso una dimensione in cui la CG non è più qualcosa
in surplus, un contorno, un accessorio fatto per stupire, bensì l'elemento fondante di tutta la struttura, ragion d'essere, punto di partenza anziché d'arrivo. La stessa sinossi, d'altronde, può essere letta come metafora di questa bivalenza: da un lato il corpo del personaggio Jake Sully (l'attore Sam Worthington) in carne ed ossa, costretto alla carrozzella, impedito nei movimenti più basilari, debole, quasi inutile; dall'altro il suo alter ego digitale e/o alieno, senza handicap, più alto, più agile, più forte, sensorialmente capace di entrare in contatto con gli animali e la natura, una specie di semidio insomma.
Allo stesso modo anche la truppa dei marines, capitanati da un rude e azzecato Stepehen Lang, si contrappone con la loro fisicità ostentata e gretta, con le loro astronavi robot (fantascienza da prima elementare) alla leggiadria quasi poetica del microcosmo di Pandora (straordinarie creature animali, montagne volanti) e al "primitivismo sensoriale" del popolo Na'Vi, dove la comunione "di spirito" fra tutte le creature viventi e la Terra che le accoglie rappresenta la risorsa e l'arma più grande. In questo contesto lo spettatore si muove come Jake nella sua esperienza "da avatar": all'inizio spaesato, strabiliato, emozionato, (è come un bambino, "vuole vedere"), arriva poi a familiarizzare sempre più con l'ambiente che lo circonda fino a diventare (metaforicamente) parte di esso, abbandona finalmente la sua corporeità per "rinascere avatar".
Appurato che la storia è comunque un veicolo, è altrettanto ovvio perciò che si impegni a rispettare i canoni del suo genere: così se la prima parte del film è più libera e visivamente spregiudicata, la seconda ritorna su un tracciato più classico, non mancando di trovate già viste (l'invasione dei marines, Jake che viene scoperto in quanto infiltrato, la resa dei conti finale) che siamo pronti a scommettere saranno il cavallo di Troia più facile dei presunti detrattori del film.
Chi invece è disposto, come Cameron, a guardare
oltre, capirà che tramite questo veicolo arriviamo ad un approdo: un nuovo cinema in grado, si spera, di cambiare definitivamente i rapporti di sudditanza fra due modi di intendere, concepire e fare film finora troppo distanti, troppo relegati nei loro stereotipi.
"Avatar" non è solo un film che rende in soli 160 minuti vecchio tutto il cinema precedente, ma è anche il film destinato, se non a rivoluzionare (parola sempre scomoda), almeno a marchiare a fuoco tutto il cinema del prossimo decennio.