2044. Il pianeta è desertificato e gli esseri umani vivono asserragliati nelle poche città sopravvissute, dipendendo dai robot "Pilgrim" per la sopravvivenza. Ma che succede se i robot iniziano ad evolvere? "Automata" è un onesto b-movie che regala qualche soddisfazione agli amanti del genere.
C'erano una volta le due leggi della robotica... Le tre leggi della robotica! Mi correggeranno i miei piccoli lettori. Invece nel mondo di Automata le noiosissime seconda e terza legge (obbedire agli ordini, non danneggiarsi) sono state sostituite da un concetto molto più interessante: è vietato modificarsi o modificare altri robot. Il film è evidentemente informato dei dibattiti dell'etica scientifica degli ultimi decenni, anche se in questi termini il poblema si è posto più per le nanomacchine che per i robot. E, così come i vecchi racconti di Asimov si sbizzarrivano nell'illustrare le conseguenze della violazione delle tre leggi originarie, in "Automata" questa bella idea iniziale è il vero motore di tutta la vicenda e il suo principale punto di forza. Se non trovate la cosa intrigante, potete probabilmente lasciar perdere il film senza leggere il resto della recensione.
La messa in scena è quella di un buon film di genere. In una premessa un po' confusa ma breve viene delineato un mondo metà "Blade Runner" metà "Mad Max" che non brilla certo per originalità, ma che è rappresentato con la necessaria convinzione e persino con qualche inserto interessante (le pubblicità delle colonie extra mondo sono realisticamente sostituite con annunci erotici). Gli attori sono buoni ma non eccelsi: i famosi in declino Antonio Banderas e Melanie Griffith, Dylan McDermott da "American Horror Story", la bella Brigitte Hjort Sorensen che interpreta la moglie di Banderas in una inutile sottotrama familiare e il sempreverde Robert Foster che ci mette le rughe. Più interessante il fatto che in partenza tutti i robot siano dello stesso modello ed abbiano quindi la stessa faccia, salvo che a forza di incidenti e modifiche più o meno legali lentamente si differenziano l'uno dall'altra. Per un film relativamente low budget (15 milioni di dollari dichiarati) i robot sono realizzati con un realismo impressionante, ed è uno degli aspetti migliori del film: non per niente Gabe Ibanez nasce come sviluppatore di effetti visivi. Purtroppo verso la fine del film, ci si impantana un po' nel filosofeggiare adolescenziale, al limite del "Nietzsche a fumetti", ma la cosa è di breve durata, prima di uno showdown esplosivo.
Ambientazione non molto originale dicevamo, e forse era un eufemismo. Oltre ai succitati punti di riferimento abbiamo anche "Ghost in the Shell" (col secondo episodio siamo al limite del plagio di personaggio), e le sagome bianche dei robot sono sempre le stesse che (almeno) dal video di "All is full of love" di Bjork girato da Cunningham sono diventate l'immaginario standard dei robot al punto da influenzare la creazione di veri robot nei laboratori di ricerca. A sorpresa però è proprio sul versante design che arriva il colpo di coda e il secondo punto di genio del film: se i robot si potessero creare completamente da soli, come si creerebbero?
Mai come questa volta, film consigliato, ma solo agli appassionati di robotica o almeno di fantascienza.
cast:
Antonio Banderas, Melanie Griffith
regia:
Gabe Ibanez
distribuzione:
Eagle Pictures
durata:
109'
produzione:
Antonio Banderas
sceneggiatura:
Gabe Ibanez
fotografia:
Alejandro Martinez
scenografie:
Patrick Salvador
montaggio:
Sergio Rozas
musiche:
Zacarias M. de la Riva