È una Sardegna che somiglia al mondo intero, quella che Salvatore Mereu mette in scena nel suo ultimo film, realizzato otto anni dopo la sua precedente fatica cinematografica. "Assandira", che richiama origini ancestrali e profondamente legate al territorio fin dal titolo, è in realtà qualcosa di diverso. E forse, in questo equivoco di fondo, si nasconde la parziale debolezza di un lavoro di adattamento da un romanzo (quello scritto da Giulio Angioni nel 2004) e di successiva trasformazione in immagini per il grande schermo. Parliamo di debolezza parziale, appunto, perché è innegabile che la macchina da presa di Mereu conserva l'efficacia e il potere di suggestionare tipico dei suoi lavori precedenti, anche se, con il passare del tempo, restituisce in parte l'impressione di un progressivo distacco da quel mondo materico e sanguigno che parla dell'Isola, del suo popolo e di codici e tradizioni fortemente connesse con il senso di appartenenza a un preciso luogo nel tempo e nello spazio. Curiosamente, il cinema dell'autore nativo di Dorgali assomiglia molto, giocando per accostamento di idee e di immagini, alla produzione letteraria di Salvatore Niffoi, scrittore che però non è mai stato adattato da Mereu per il cinema, a differenza di diversi altri romanzieri sardi. Eppure, il parallelismo sta proprio in questo cogliere, chi con la parola e chi con il dettaglio visivo, una realtà invisibile, ai limiti dell'esoterico, che si nasconde fra le pieghe di una comunità apparentemente così chiusa, in una lingua che sembra incomprensibile, in paesaggi e villaggi che non appartengono al mondo oltre il mare. E al tempo stesso, in queste ambientazioni, fra questi uomini e donne, fra queste strade e queste campagne, fra gli animali al pascolo e i boschi tutti intorno, Mereu allarga costantemente lo sguardo, per andare a fotografare una vita rurale che non è propria solo della sua terra, ma che è simbolo di un'epoca e un modus vivendi ben più diffuso.
Questo prodigioso connubio viene in parte meno in "Assandira", allorché la Sardegna dei pastori e della loro vita agreste rischia di finire su uno sfondo esotico, mentre in scena va una vicenda convenzionale di tradimento delle origini, di smarrimento della strada maestra, con tutte le tragiche conseguenze che queste azioni possono provocare. Costantino, stanco pastore ormai settantenne, riceve la visita di Mario, il suo figlio emigrato anni prima in Nord Europa e rientrato insieme alla moglie Greta, conosciuta e sposata lontano. I due, carichi di ottimismo e buone intenzioni, convincono il vecchio a trasformare il proprio podere in un'attrazione turistica, in uno dei di quegli "agriturismo per gioco" che si sono diffusi velocemente negli ultimi anni in Sardegna. Tutto viene ricalcato sul modello del passato tradizionale, ma tutto è posticcio e recitato, a uso e consumo di un turista distratto, poco interessato alla Storia e molto attratto dall'effetto novità. Mereu ribalta la struttura classica del racconto e la impreziosisce di flashback e flashforward. Fin dal principio, infatti, sappiamo com'è andata la vicenda: un terribile incendio distrugge la struttura Assandira e nel rogo perde la vita proprio l'adorato Mario. Da lì, usando ogni possibile trucco narrativo, il cineasta sardo omaggia le convenzioni del noir e, attraverso il confronto fra Costantino e il magistrato chiamato a fare luce sul grave incidente, porta alla luce frammenti di vicende trascorse che mostrano, appunto, l'opera di convincimento che il giovane rientrato a casa porta a compimento nei confronti del padre e, successivamente, il progressivo imbarbarimento dell'impresa turistica messa in piedi. Inizialmente nata con il nobile scopo di far conoscere la dura vita dei pastori agli avventori, alla fine Assandira si rivelerà un baraccone grottesco in cui le vecchie abitudini, i rituali, la severità e durezza di quel tipo di lavoro, tutto risulta talmente accentuato da diventare una caricatura.
Mereu ci prova in ogni modo a mantenere le redini del racconto: da una parte il noir a tinte scure, con il lento e ineluttabile disvelamento degli eventi; dall'altra il registro surreale, filtrato dallo sguardo assente e impotente di Costantino. C'è un ambizioso profilo di non detto in "Assandira", che colpisce come un pugno nello stomaco. Senza rivelare nel dettaglio un paio di sequenze che assumono connotati disturbanti all'occhio dello spettatore, è il costante e angoscioso deteriorarsi degli equilibri umani che attira l'attenzione di chi guarda. Un figlio e un padre che si amano, ma che cominciano a sentirsi insidiati l'uno dall'altro, una moglie innamorata, dallo sguardo e dalle movenze diaboliche, che pare indecisa se spingere il marito verso l'estremizzazione degli obiettivi o se irretire il suocero, annichilito dalla sua fisicità prorompente ed esibita. C'è una grande attenzione nel cinema di Mereu al rapporto umano non necessariamente inquadrato con il supporto della dialettica: i suoi personaggi spesso, e anche in questo caso lo confermano, non hanno bisogno di molte parole o, meglio, di comprendersi a vicenda per entrare in contatto o collisione. Dallo schermo esondano i colori, gli odori, le sensazioni tattili: una corporeità che non può che essere il normale complemento di un territorio che fa della durezza e al tempo stesso della sua natura incontaminata la chiave del suo mistero.
Quando un film è l'adattamento di un'opera letteraria bisogna valutarne sempre due aspetti: l'originalità dell'adattamento stesso e l'eventuale forza comunicativa dell'immagine. Per quanto riguarda il primo profilo c'è poco da aggiungere: Mereu si attiene alla struttura del libro, virando sul cinema di genere nel momento in cui porta alla luce le verità celate dalla tragedia che colpisce il protagonista. Sul secondo aspetto, invece, risulta più difficile evidenziare la personalità del talentuoso autore di "Bellas mariposas", che sembra scontare la troppa ambizione nel voler sommare più registri narrativi contemporaneamente. Una doverosa citazione, però, la meritano i tre protagonisti: il redivivo Gavino Ledda, il non professionista Marco Zucca e, soprattutto, la tedesca Anna Konig, capace di donare al personaggio di Greta un ammaliante e luciferino potere di seduzione.
cast:
Gavino Ledda, Anna König, Marco Zucca
regia:
Salvatore Mereu
distribuzione:
Lucky Red
durata:
128'
produzione:
Viacolvento con Rai Cinema
sceneggiatura:
Salvatore Mereu
fotografia:
Sandro Chessa
montaggio:
Paola Freddi