Ritorno alle origini per Mimmo Calopresti. Il regista calabrese ambienta nel cuore della sua regione la sua nuova fatica cinematografica, scegliendo di raccontare una storia collettiva di riscatto sociale e culturale di sicuro impatto emotivo. Siamo nel cuore dell'Aspromonte, anni 50. Un piccolo paese è completamente isolato dal resto del mondo, manca persino un dottore. E quando una donna incinta muore per mancanza di soccorsi, ecco che il gruppo di persone che anima il villaggio decide in autonomia di costruirsi una strada che colleghi Africo con la "marina", la costa, il centro nuovo dove si stanno concentrando gli investimenti dell'amministrazione locale. Una decisione che, però, costa agli abitanti uno scontro duro sia con il ceto politico del luogo, sia con i capibanda che fanno affari proprio approfittando dell'inefficienza della macchina pubblica. In tutto questo, a fare da osservatrice prima distaccata, poi sempre più coinvolta, c'è un'insegnante arrivata dal profondo Nord, che alla fine troverà fra queste persone abbandonate a loro stesse il calore che non aveva mai conosciuto.
Gli intenti di Calopresti sono nobili e accompagnati da una evidente cura nel dettaglio. Il film ha delle ambientazioni sceniche suggestive, si avvale di una colonna sonora evocativa firmata da Nicola Piovani, la fotografia di Stefano Falivene immerge l'azione in colori dalle sfumature grigiastre che annullano il senso di natura rigogliosa e benevola attorno ai protagonisti. E la regia stessa di Calopresti è generosa nel suo prodigarsi in scene ritmate, sequenze di gruppo, ricostruzioni d'ambienti d'epoca aderenti al contesto. E in più Valeria Bruni Tedeschi, pur costretta in un ruolo che sa di già visto e di usurato, fornisce ancora una volta una prova attoriale in grado di catalizzare su di sé i momenti più forti dal punto di vista emotivo.
Ma "Aspromonte" ha proprio nella generosità, o meglio nel suo eccesso, la più pesante zavorra che non fa decollare mai il film. Fin troppo didascalico in fase di scrittura, il film è sceneggiato con troppa superficialità. Gli snodi narrativi diventano tappe forzate e ampiamente prevedibili di una vicenda che viene messa in scena con un'esagerata dose di semplicità. Tutto è meccanico, sottolineato, evidenziato e fornito di didascalie, a volte nelle scelte di regia, a volte in quelle di scrittura. Certo, quando si vuole lavorare per metafore, il rischio è sempre presente, ma a volte Calopresti davvero non riesce a porre dei limiti. E così, lo stereotipo che diventa pellicola è servito: Africo, Italia, verrebbe da dire. O anche Africo, 1951-2019. Lo sguardo dell'autore che va a fotografare il Dopoguerra parla anche di un presente evidente in molte similitudini esibite. Poteva essere interessante il discorso sull'involontaria ma inevitabile commistione fra politica e criminalità. Laddove la prima non riesce a operare perché lenta, impacciata e pigra, la seconda interviene per lucrare, risolvendo i problemi con metodi non proprio legali e contemporaneamente comprando in tal modo il consenso delle persone. La figura di Don Totò, interpretato da Sergio Rubini, è ondivaga e poco credibile. Non c'è una costruzione drammaturgica adeguata che ci permetta di comprendere perché egli si oppone, ad esempio, alla costruzione della strada. Così è e così deve essere accettato, sia dagli interlocutori, sia dagli spettatori.
Il Sud rurale, di oggi o di ieri, è un (non)luogo che si sta rivelando occasione di ispirazione per molti cineasti italiani, più o meno indipendenti. Il pensiero va ovviamente ai film di Alice Rohrwacher, ma dietro di lei si nascondono giovani autori dallo spunto interessante. Questo Mezzogiorno depresso eppure carico di tradizioni e di istinto di conservazione diventa al cinema una bussola ideale per orientarsi sui cambiamenti di una società che, nel corso dei decenni, mantiene comunque una costante: l'ingiustizia unita alla sperequazione. Su questo anche Calopresti si impegna nella sua ultima opera, pur fallendo in parte l'obiettivo di rendere viva e pulsante questa comunità che, in certi momenti, finisce per sembrare quel ritratto "da cartolina" che soprattutto all'estero amano avere come rappresentazione delle nostre regioni più impervie. Ci piace la definizione che lo stesso regista ha dato del suo film: un western insolito, inteso come una storia di conquista della civiltà, una sfida alla frontiera dell'umanità. Insomma, se solo ci fosse stata una profondità di sguardo ulteriore e una coerenza narrativa maggiore, gli sforzi pur encomiabili non sarebbero andati in parte perduti. Acconteniamoci dei lampi di classe della Bruni Tedeschi e sorvoliamo sullo sfruttamento che il nostro cinema sta facendo della maschera di Marcello Fonte, diventato dopo "Dogman" una sorta di amuleto. Il suo talento meriterebbe un utilizzo più accorto.
cast:
Valeria Bruni Tedeschi, Marcello Fonte, Sergio Rubini, Marco Leonardi, Romina Mondello
regia:
Mimmo Calopresti
distribuzione:
Italian International Film
durata:
89'
produzione:
Italian International Film con Rai Cinema
sceneggiatura:
Mimmo Calopresti, Monica Zappelli
fotografia:
Stefano Falivene
montaggio:
Valerio Quintarelli
musiche:
Nicola Piovani