Ai Talking Heads il compito di aprire "Aspettando il re". "Once in a Lifetime" sonorizza l'introduzione di Alan, cinquantenne in crisi dopo la Grande Recessione, divorziato dalla bella moglie, non più in grado di pagare la bella casa, la bella automobile e le rette del college alla bella figlia, pinzato in una trasferta lavorativa in Arabia Saudita che sa di ultima spiaggia. Laggiù deve tentare il colpaccio, vendere al Re in persona la tecnologia olografica per teleconferenze sviluppata dall'azienda di cui è dipendente, avanguardia ritenuta adatta al colossale progetto di urbanizzazione in corso sulle rive del Mar Rosso, l'edificazione di una metropoli moderna dove ora c'è solo deserto. Megaprogetto vero al quale Dave Eggers si è ispirato nel 2012 per scrivere il romanzo da cui Tom Tykwer, fra i più cosmopoliti registi contemporanei, ha tratto il film.
È uso di Eggers scegliere un tema d'attualità e scriverci sopra o attorno e per "A Hologram for the King" la scelta è ricaduta sulla società postindustriale. L'adattamento di Tykwer gli sta appresso serbando sentori da tragicommedia dell'assurdo, le attese e le assenze di Beckett e Kafka già spunto scheletrico del libro. Dove però il duo succitato poneva l'uomo in rapporto a un "assoluto cieco" (con le parole di Roberto Rebora), Tykwer contestualizza vita e crisi di Alan Clay. Vittima della delocalizzazione e del dominante mercato dell'informazione, assalito dal senso di colpa per l'incapacità di stare al passo col presente, Alan è l'immagine esibita senza sottigliezze metaforiche dell'Occidente Y2K, scosso dall'emersione delle potenze economiche orientali e dalle potenzialità del progresso digitale, fermo sul posto ad aspettare il colpo di grazia o il miracolo ex machina.
Dalla sua stanza di hotel a Gedda, dove si risveglia sempre in ritardo sulla tabella di marcia, Alan viene scarrozzato nella Economic City di re Abdullah, desolata distesa di sabbia esistente solo nelle planimetrie, nei modelli in scala, nei cartelloni pubblicitari, città fantasma non perché già morta ma perché non ancora nata. Con il Re che non arriva mai all'appuntamento la permanenza saudita diviene subito spaziotempo d'attesa, custode di un doppio controsenso: il tentativo di vendere e installare all'interno di un venturo concretissimo luogo un dispositivo tecnologico che esprime la propria massima funzionalità nei nonluoghi; la volontà di erigere un'immensa realtà locale quando la realtà che va imponendosi nell'immediato è globale su ogni versante.
L'Arabia intera è fertile di controsensi agli occhi di Alan, che prima di avvertire le ovvie divergenze culturali è destabilizzato dalle similitudini superficiali. Smartphone e alcolici, lingerie sexy in vetrina, Kentucky Fried Chicken opening soon. La confusione si fa materia filmica nella tessitura semantica di Tykwer: il campo lungo come smarrimento, il flashback come disintegrazione della personalità, la ripetizione di inquadrature come perdita del significato di agire.
Ci si addentra nel cuore del paese e dei quesiti ed ecco scattare il rovesciamento, tutto si concentra, si approfondisce sebbene esclusivamente nella dimensione privata dei personaggi. Il tempo morto diventa tempo vissuto e le zone d'attesa diventano rifugi ospitali; abitazioni anziché uffici e ambasciate e alberghi; persone anziché proiezioni 3D; pelle anziché pixel. Ad Alan è perfino estirpato un lipoma precanceroso dalla schiena, in parte somatizzazione simbolica, in parte vettore di tangibilità corporale. I campi si ravvicinano, il flashback si fa riparazione identitaria e indice di memoria formativa-affettiva, la ripetizione sussiste ma con segno opposto: un approccio sentimentale e sessuale prima vanificato adesso riesce, benché con soggetti diversi, e schiude prospettive rosee che il romanzo non concedeva. La possibilità di riflettere su pilastri e avamposti dell'economia di oggigiorno sfuma in dissolvenza incrociata sul carteggio romantico, sul racconto morale e su un ammonimento che suona obsoleto: le risorse informatiche colmano distanze ma rischiano di desocializzare, se latita spirito di reinvenzione. La questione dell'età assume forma e peso.
Per fortuna senza emissione di sentenze, è comunque ancora querelle fra autenticità e virtualità, deficienze umane e mutazione dell'interattività e difatti l'eterno ritardatario Alan, saltato l'affare con il Re, si accasa e finisce a vendere appartamenti, non ologrammi. Il confronto con i dettami radicati e altrettanto trasgrediti di un paese straniero, sineddoche di una metodologia comunicativa sconosciuta, fa strada alla forzosa ricostruzione di sé tramite l'altro, attingendo però da un retroterra di appartenenza generazionale. Il film si prende quindi la briga di autodefinirsi (senza intenzione), e di dare ragione (con intenzione) a re Abdullah, finalmente arrivato a sorpresa, il quale davanti allo showcase di Alan e co. sorride e applaude come un bimbo al circo: è stato uno spettacolino piacevole, grazie e arrivederci; non è un ologramma per vecchi. I dislivelli di profondità di "Aspettando il re" sono il compendio della produzione trasversale di Tykwer, che fa pensare, a seconda del pensatore, a un cineasta eclettico o a un ghostdirector. Forse nessuna delle due qualifiche è giusta, forse sono giuste entrambe.
cast:
Tom Hanks, Alexander Black, Sarita Choudhury, Sidse Babett Knudsen, Tom Skerritt, Ben Whishaw
regia:
Tom Tykwer
titolo originale:
A Hologram for the King
distribuzione:
Lucky Red
durata:
98'
produzione:
X-Filme Creative Pool, 22h22, Fábrica de Cine, Kasbah-Film Tanger, Playtone, Primeridian
sceneggiatura:
Tom Tykwer
fotografia:
Frank Griebe
scenografie:
Uli Hanisch
montaggio:
Alexander Berner
costumi:
Pierre-Yves Gayraud
musiche:
Johnny Klimek, Tom Tykwer