Da "
L'ultimo terrestre" a "L'arrivo di Wang" il cinema italiano fa le prove generali per riappropriarsi di un genere che i produttori sembravano aver cancellato dai loro programmi. Ed invece complice il
festival veneziano, dove entrambi sono stati presentati la fantascienza made in Italy fa la sua réentre proponendo a pochi mesi di distanza due opere che seppur con diversità di stile ed anche di possibilità realizzative tornano a parlare il linguaggio della fantasia proponendo la visione di un mondo alle prese con una possibile invasione aliena. Insomma un genere nel genere se non fosse che i Manetti Bros ci mettono del loro per inventarsi una storia che pur rientrando di diritto nella categoria riesce allo stesso tempo a mantenere intatta la loro identità. Se infatti la trama si sviluppa attorno ad un misterioso interrogatorio in cui sono coinvolti una giovane sinologa ed un losco agente dei servizi segreti la sorpresa consiste nel fatto che Wong, l'alieno giunto sulla terra con propositi che l'interrogatorio deve svelare si esprime utilizzando il cinese mandarino. Una situazione paradigmatica quella del confronto tra abitanti di diversi pianeti che i Manetti trasformano in un balletto drammatico ed al tempo stesso grottesco, in cui tanto la composizione dei caratteri, anomala per il modo in cui si comportano - l'agente è costantemente sopra le righe, la traduttrice sull'orlo di una crisi di nervi, l'alieno impacciato ed a volte persino buffo - quanto il contesto in cui si svolge - la drammaticità della situazione è continuamente sabotata dalla presenza sui generis della lingua cinese - concorrono a decostruire l'incontro del terzo tipo, avvalendosi di continui cambi di direzione, affidati ai punti di vista dei personaggi, colpevolista quello di Curti (un cattivissimo Ennio Fantastichini) convinto della cattiva fede del visitatore, assolutorio quello di Gaia (la camaleontica Gaia Cuttica , attrice feticcio dei registi) schierata dalla parte del più debole più per i metodi inquisitori di chi lo interroga che per propria convinzione. E senza far pesare troppo suggestioni sociologiche e riferimenti alla contemporaneità la vicenda riesce a far passare la metafora di un mondo dominato dal pregiudizio, e da una conoscenza che si ferma sulla superficie delle cose. A perdere sarà sempre la razza umana, indipendentemente da schieramenti e ideologie.
Girato con un economia di mezzi che i due registi trasformano sempre in plus valore "L'arrivo di Wang" è un film ricco di linguaggi cinematografici, inventati di volta in volta per fornire il giusto contraltare alla performance dei personaggi. Concentrato in un unico spazio, il bunker asettico ed opprimente dove si svolge l'interrogatorio, l'occhio dei Manetti Bros si concentra sulle facce degli attori che si diverte a deformare con lenti fuori fuoco, grand'angoli e sovrapposizioni di luce per restituirne la dimensione di follia e di pericolo in cui sono precipitati i personaggi da loro interpretati. Ma il film ha nel contempo una costituzione materica e diremmo carnale quando, lavorando sui corpi c'è li mostra sottoposti ad ogni genere di afflizione, legati, colpiti, sudati e sanguinanti ma comunque sostenuti da un agonismo che gli impedisce di arrendersi agli ostacoli che il destino gli mette sulla strada. Ed anche il comparto tecnico rappresentato da una squadra di giovanissimi, la Palantir Digital Media, contribuisce a questa consistenza creando un personaggio virtuale, Wang appunto, credibile per la varietà di espressioni ed una fisicità evidenziata dalla luce neutra che i registi hanno espressamente voluto per illuminare la loro creatura. Una scommessa vita quella dei Manetti, con i festival che fanno a gara per accaparrarsi il loro film e con il prossimo giunto al termine della lavorazione. Come dire che a loro la crisi gli fa un baffo.
07/03/2012