Sono passati ormai 40 anni da “Koyaanisqatsi” (1982), primo film della trilogia di Godfrey Reggio, prodotta da Francis Ford Coppola, il documentario sperimentale che tramite una serie di video rallentati e accelerati - accompagnati dal minimalismo frenetico di Philip Glass - cercava di far riflettere lo spettatore sull'impatto sempre più massiccio dell’uomo sugli equilibri della natura, concentrandosi, in particolare nel finale, sull’infelicità profonda che questa corsa smodata verso il nulla crea nei singoli individui. Forse non si parlava ancora di una nuova era geologica, ma si era già immersi - inconsapevolmente - in pieno Antropocene, l'epoca geologica in cui l'impatto globale dell’uomo sulla Terra supera di gran lunga tutte le altre variabili naturali che influiscono sui processi geologici, sui cambiamenti climatici e sull’equilibrio biologico.
“Antropocene - L'epoca umana” - terzo documentario frutto della collaborazione dei registi Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier con il fotografo Edward Burtynsky - pone violentemente l’attenzione sulla forza distruttiva dell’uomo sull'ambiente, andando a esplorare svariate regioni del mondo dove, in modo diverso, le attività industriali hanno aggredito e snaturato il paesaggio. Antropocene senz’altro, ma sarebbe anche il caso di chiamarlo Capitalocene in quanto - per gran parte degli scienziati - è l'ideologia capitalista, tipicamente caratterizzata dall'assenza di limiti, ad aver portato l'azione dell’uomo a livelli che superano di gran lunga le possibilità di recupero della natura.
La regia pone l’attenzione soprattutto sulla potenza delle immagini, sia sull’estremamente grande che sull’estremamente piccolo, grazie a svariate inquadrature dall’alto con le quali i registi ci rendono partecipi di una visione d’insieme che i sensi del singolo individuo non possono percepire. A queste inquadrature ampie fanno da contraltare le immagini opposte degli zoom verso le zone più piccole e fragili del pianeta, calpestate dall’avidità umana. In entrambi i casi le immagini, potenti e iconiche, sono le vere protagoniste, come immense opere d’arte poste al centro del documentario, più importanti dei tanti e interessantissimi dati scientifici che la voce fuori campo comunica all’ascoltatore. Merito principale della regia e della fotografia è quello di rendere persino superflui i dati, in quanto la scelta delle immagini e dei colori comunica già in modo palese la realtà.
Non c’è luogo del mondo che si salvi da questo furore ideologico, da Noril'sk in Siberia, la città più inquinata della Russia con una immensa fabbrica di smaltimento e produzione di svariati metalli, alla miniera di litio nel deserto dell’Atacama in Cile, dai massicci disboscamenti del Nordamerica sino ai fantascientifici escavatori (i più grandi del mondo) della miniera di Immerath in Germania, che forse solo la mente di Frank Herbert (autore di “Dune”) era riuscita a immaginare. La fotografia gioca sul fascino nefasto di queste megastrutture umane, creando una sorta di pulsione di morte nello spettatore con la visione delle vasche di litio cileno che sembrano quasi opere d’arte malefiche, con gli affascinanti ghirigori delle miniere di potassio di Berezniki in Russia o nei colori abbaglianti delle miniere di fosfato in Florida.
I registi si pongono quindi come testimoni di un'epoca, ma anche come portatori di messaggi disperanti, divenendo quindi autori di un documentario militante ma scientificamente provato in ogni sua affermazione, in un connubio studiato di arte visiva e scienza. Cosa porta questa corsa verso il profitto, in questo mondo dominato da un liberismo senza limiti? Se “Koyaanisqatsi” poneva l’attenzione sull'alienazione e sull’infelicità dell’individuo, “Antropocene” si concentra sull'altra faccia della medaglia dell’eccesso di produzione, come la mega-discarica di Dandora in Kenya dove vivono e lavorano duecentocinquantamila persone in condizioni facilmente immaginabili, che dimostra come quello che si vede nei più cupi film di fantascienza distopica sia già realtà.
Ma oltre alle montagne infinite di scarti della società capitalista, il secondo frutto tragico è la sempre crescente diseguaglianza sociale, tra novelli Elon Musk pronti ad andare su Marte e miliardi di persone che vivono ai margini di questa società, senza coscienza reale del proprio ruolo. Stupefacente come gli operai delle immense fabbriche siano orgogliosi di lavorarvi, come anche chi vive nella discarica di Dandora sia felice di poterlo fare perché, in qualche modo, privilegiato rispetto ad altri.
In tutto questo vortice senza fine, chi è destinato a soccombere sono gli animali, che vivono la sesta estinzione di massa, dall'ultimo esemplare di rinoceronte bianco vivente alla strage di elefanti in Kenya per la raccolta dell’avorio, che diventa il simbolo dell’avidità umana, resa visivamente dal rogo delle zanne di elefanti sequestrate ai bracconieri, immagine che è diventata il simbolo stesso di “Antropocene”.
regia:
Jennifer Baichwal, Nicholas de Pencier, Edward Burtynsky
titolo originale:
Anthropocene - The Human Epoch
distribuzione:
Mercury Films
durata:
83'
produzione:
Nicholas de Pencier
sceneggiatura:
Jennifer Baichwal
fotografia:
Edward Burtynsky, Nicholas de Pencier
montaggio:
Roland Schlimme