Un diffuso giudizio vuole che la maturazione delle odierne produzioni televisive statunitensi sia legata all'acquisizione consapevole di un linguaggio in parte mutuato dalla tradizione cinematografica; viceversa, il cinema italiano sembra nutrirsi di fiction televisive. Si tratta, certo, di una imprecisa generalizzazione, che, tuttavia, se declinata al particolare, ben descrive il corso di alcuni prodotti nostrani che non sfigurerebbero tra una puntata di "Elisa di Rivombrosa" e il San Francesco di Raoul Bova.
Con alle spalle "Il caso dell'infedele Klara" e "Un giorno questo dolore ti sarà utile", il cinema di Roberto Faenza si candida a emblematico rappresentate di categoria e, sebbene spiaccia incollare la brusca etichetta di prodotto televisivo ad un progetto senz'altro partorito con le migliori intenzioni, il fiacco esito di questo "Anita B." non fa che corroborare le attese.
A vent'anni da "Jona che visse nella balena", il regista torna ad occuparsi della tragedia dell'Olocausto, ma stavolta, complice il libro di Edith Bruck "Quanta stella c'è nel cielo", trasla l'orizzonte temporale nell'immediato dopoguerra per raccontare, con lunghi sospiri da romanzo d'appendice, la storia di un'adolescente ungherese reduce dall'orrore dei campi di sterminio. Rimasta orfana durante la prigionia, la giovane Anita viene affidata alle severe cure di una zia ben poco affettuosa e impegnata a salvaguardare la nuova, insperata serenità del focolare domestico attraverso una radicale rimozione del vissuto traumatico della nipote. Il monito è plateale (come tutto, nel film): "Lascia Auschwitz fuori da questa casa" e ribadito con ferma ostinazione ad ogni tentativo della fanciulla di legare il suo presente alla tragica memoria della prigionia. Unica consolazione sarà il giovane e riccioluto cognato della zia, Eli, baldanzoso seduttore che sembra uscito da un teen drama non meno del suo interprete, con il quale Anita intreccerà una relazione destinata a produrre una svolta radicale nella propria vita.
Come si vede, le ragioni di interesse non mancherebbero, su tutte il ruolo della memoria storica, tema di frequente affrontato in epoca odierna, ma raramente esplorato nel contesto delle comunità ebraiche del dopoguerra, talvolta disposte ad abbracciare la rimozione come lenimento all'incubo di ferite ancora sanguinanti. Peccato che ogni spunto venga mortificato dall'invadenza di un registro didascalico, che non manca di istruire il pubblico con la molestia di un'audioguida museale. Ci aggiriamo, così, per le strade di una Praga postbellica (e basteranno, poi, quelle poche crepe sui muri a restituire per metonimia la tragedia di una città invasa dai nazisti?) come annoiati turisti in una pinacoteca e neppure ci è richiesto lo sforzo di sfogliare un depliant, dato l'accompagnamento monologante della voce over della protagonista, che non manca di informarci sulle minime oscillazioni dei suoi stati d'animo con la diligenza di una confessione diaristica. E quel ch'ella, personaggio interno al racconto, non può sapere? Inutile sforzarsi di trovare una via di espressione cinematografica, molto meglio delegarlo al discorso diretto dei comprimari, più che disposti ad abbandonarsi a pedanti resoconti storici, spesso culminanti in salaci aforismi dal sapore vagamente mocciano ("impara a mordere la vita").
È in questo senso che il cinema di Faenza si risolve nel dire, peggio: nell'enunciato, nella chiosa esplicativa, mentre l'immagine rimane un sottofondo, degradata all'evidenza ridondante di un avviso pubblicitario. Il suo fine è quello di trovare il modo più facile e immediato di tradurre il senso di una scena e, dunque, se la protagonista viene morsa dal timore di perdere la propria identità, basterà farla monologare innanzi a uno specchio per dichiarare la crisi, rinunciando di riflesso a qualunque buon gusto nella messa in scena.
Abbandonato quasi subito l'interessantissimo tema della memoria, il film scade irrimediabilmente nell'affresco adolescenziale, al punto che Anita, dimentica del bizzarro comportamento della zia che le impedisce di sfogare i propri ricordi (e, in fondo, consolata dalle segrete conversazioni con l'infante cugino, che, sedotto dai disegni a carboncino, in un vertiginoso quanto prevedibile - e, anzi, vertiginoso perché prevedibile - azzardo drammatico finirà con l'articolare come prima parola "campo"), non esita a sostituire la crisi identitaria (facilmente risolta grazie allo specchio) con una più concreta palpitazione amorosa verso Eli, turbolento giovanotto capace di slanci d'ira e inspiegabili tenerezze. Il rapporto morboso che si disegna tra i due (con Eli che non si pone certo scrupoli nel primo, forzato approccio) parrebbe foriero di un certo interesse, soprattutto se letto in controluce sul tragico passato di Anita, ma ancora una volta il film decide di non osare, allontana gli spettri di una paventata "Sindrome di Stoccolma" e si adagia sulla stanca retorica delle ansie da teenager.
È il momento in cui si fa più scoperta l'adesione a un target giovanile, ritenuto, forse, inabile a sostenere l'onere di un discorso sull'Olocausto se non filtrato dalla patina di una blanda empatia generazionale. Impressione rafforzata dalle bizzarre scelte di marketing che hanno accompagnato l'uscita del film, tra cui la locandina in cui si chiedeva a caratteri cubitali "A quale X-Factor partecipò Adolf Eichmann?", per poi chiosare sotto la foto del gerarca nazista "Anche una domanda così, in un paese dove i concorrenti de ‘L'Eredità' non sanno chi fosse Hitler, potrebbe finire in un quiz tv". Ove ve ne fosse bisogno, l'esempio illustra la natura didattica di un progetto, che, anziché riflettere approfonditamente sulle annose tematiche chiamate in causa, preferisce esibirsi come baluardo educativo pronto ad arginare la dissennata incoscienza di una gioventù annoiata dai "soliti film sui campi di concentramento".
Ci piacerebbe rassicurare Faenza: i giovani non sono poi così irriflessivi quanto il regista sembra credere e, salvo alcuni casi, non trovano affatto i loro rappresentanti tra i concorrenti dei quiz televisivi. Se concediamo che non tutti avranno portato a termine l'impegnativa visione de "Il dolore e la pietà" (d'altro canto faceva resistenza pure Diane Keaton), non si vede davvero come un mediocre feuilleton paternalista potrebbe scuoterli dal presunto torpore culturale. E, comunque, i trentadue minuti del capolavoro di Alain Resnais "Notte e nebbia" rimangono ancor oggi più densi e coinvolgenti (intellettualmente ed emotivamente) degli estenuanti ottantotto minuti di "Anita B".
cast:
Eline Powell, Robert Sheehan, Andrea Osvart, Antonio Cupo, Guenda Goria, Moni Ovadia
regia:
Roberto Faenza
distribuzione:
Good Films
durata:
88'
produzione:
Rai Cinema, Jean Vigo Italia, Cinema Undici
sceneggiatura:
Edith Bruck, Roberto Faenza, Nelo Risi, Iole Masucci
fotografia:
Arnaldo Catinari
scenografie:
Cosimo Gomez
montaggio:
Massimo Fiocchi
costumi:
Anna Lombradi
musiche:
Paolo Buonvino